“Un delitto come questo, nonostante il tempo passato e la condotta successiva dell’imputato non merita altra pena che l’ergastolo”. Così il pm Enrico Cieri ha concluso la prima parte della requisitoria nei confronti di Gilberto Cavallini, l’ex Nar imputato per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. “Se doveste ritenere che Cavallini – ha detto la pubblica accusa rivolgendosi ai giudici della Corte d’assise – abbia semplicemente offerto ai tre condannati in via definitiva (Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini) solo un passaggio fino a Bologna, mentre lui si dedicava ad altro, quantomeno dovreste ritenere il contributo di aver offerto una base logistica e documenti contraffatti, in tutti i casi si tratta di una condotta di partecipazione colpevole alla strage, che lo deve far ritenere responsabile”. “La richiesta di ergastolo del pm per Gilberto Cavallini è l’unica che poteva essere fatta, era scontata. Il processo ha determinato chiaramente la collusione di Cavallini nell’esecuzione della strage e non solo un appoggio logistico agli autori dell’attentato – dice all’AdnKronos, Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione tra i parenti delle vittime – Finalmente, da questo punto di vista stiamo arrivando a conclusione, ma ora si apre tutto un altro capitolo che speriamo inizi presto e porti alla sbarra chi ha voluto questa strage: i mandanti“.

Per il pm Enrico Cieri ci sono “quattro chiodi” che costituiscono gli indizi su cui si fondò la condanna all’ergastolo, per la strage del 2 agosto, di Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, e che “devono portarvi – ha detto rivolgendosi ai giudici della Corte d’Assise – alla conclusione assolutamente obbligata della condivisione piena del progetto stragistico anche da parte di Cavallini, che in quei giorni ospitò il resto della banda in casa sua e di Flavia Sbrojavacca a Villorba di Treviso”. I “quattro chiodi”, ha spiegato Cieri durante la sua requisitoria, sono le dichiarazioni di Massimo Sparti, principale accusatore dei Nar per la strage, “ancora mai contraddette”, e il movente dell’omicidio di Francesco Mangiameli, leader siciliano di Terza Posizione, ucciso perché avrebbe potuto rivelare “sconcertanti responsabilità sulla strage”. E ancora, la telefonata di Luigi Ciavardini a Cecilia Loreti, sua amica, per avvisarla di posticipare un viaggio a Venezia dal 2 al 3 agosto, poi infine il fatto che l’alibi fornito dai Nar per il giorno della strage è “fasullo”.
“Non è credibile – ha spiegato ancora il pm – che i quattro, la mattina del 2 agosto 1980 si siano divisi, che solo in tre siano andati a Bologna con 15 chili di tritolo, non si capisce come, visto che erano tutti insieme nella macchina di Flavia Sbrojavacca, che invece Cavallini sia andato a Venezia da solo per far filettare un’arma”.

Il processo, nato dall’avocazione del fascicolo da parte della procura generale, è iniziato l’11 marzo dell’anno scorso. Nel corso del dibattimento sono stati moltissimi gli atti istruttori. C’è stato anche il conferimento di perizie: una genetica, una chimica sull’esplosione. Sono stati sentiti come testimoni anche i tre condannati in via definitiva. In una delle ultime udienze in cui è stata discussa appunto la perizia genetica perché era emersa l’ipotesi di una 86esima persona deceduta. Sul punto dopo però era stata chiara l’ordinanza del presidente della corte, Michele Leoni: “Qui non si versa in un giudizio di revisione e i giudici del dibattimento fondano il proprio giudizio su elementi di prova concreti. Al momento eventuali ipotesi, puramente astratte, relative all’esistenza di vittime non identificate vanno correttamente rappresentate ad una autorità inquirente”. Un concetto espresso nel respingere la richiesta della difesa di Cavallini di chiamare a testimoniare Silvana Ancillotti, l’amica di Maria Fresu che sopravvisse all’attentato. Il presidente ha invitato quindi chi è convinto che tra le vittime della strage ce ne sia una mai identificata, quindi una 86esima, ad andare in Procura per chiedere che si indaghi su questa ipotesi. Su eventuali inquinamenti delle prove, la corte ha ricordato che “l’immediato contesto post-strage era uno scenario apocalittico”, fatto di “una mescolanza di corpi e macerie”, dunque “sarebbe stato impossibile individuare e selezionare un corpo da far sparire”, e “in via logica non è ragionevole ipotizzare l’organizzazione di un inquinamento delle prove estemporaneo e immediato a seguito di un evento del tutto accidentale e quindi non assolutamente preventivato”.

La conclusione sulla perizia chimica è che l’esplosivo utilizzato è “sicuramente” di origine bellica, frutto dello scaricamento di munizionamento militare. Per i periti, Danilo Coppe e Adolfo Gregori, “chi disponeva di detti materiali poteva disporre ed utilizzare anche cariche di lancio ad integrazione di quelle più potenti”. Una conclusione che si discosta da altre conclusioni sull’esplosione con l’impiego di esplosivo-gelatina per uso civile. Per i periti essendo “evidente” nel materiale analizzato la presenza di Tnt e Rdx, oltre alla dinamite gelatina, per l’esplosivo usato a Bologna la scelta cade o sul Compound B o meno probabilmente sulla Tritolite. Il primo di provenienza Usa, il secondo europea. Visto il ritrovamento di cariche di lancio, l’origine del Compound B potrebbe derivare da ‘colpo da cannone
navale da 5″/38 con peso carica di circa 1,8 kg oppure da ‘colpo da artiglieria da 155 con peso carica di circa 6.9 kg’.

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