Basta, lo confesso.
Inutile far finta di niente.
Alla faccia della presenza mentale. Ho una dipendenza. E me la tengo, con gran consapevolezza la osservo.

Una situazione che va accettata, direi. Combatterla? Uhm, preferisco di no – almeno finché non dovessi rendermi conto di provocare un danno a qualcuno. Ho provato a valutare la possibilità, ma nello spazio immaginario tra l’accettazione radicale e il superamento mi sento attratta dall’accettazione radicale. E per accettarla, una situazione, va ben descritta, no?

E dunque. E poi oggi è l’ultimo dell’anno, quando si fanno i buoni propositi: il mio è non farne, per una volta, volermi bene come sono, che bella idea – con la mia brava dipendenza. Anzi, per non mancarle di rispetto non la chiamerò più dipendenza, accumulazione, ma – si dai – collezione: ho la mania delle scarpe, ne ho certamente “troppe” – oltre le 60 paia che pare definiscano il limitare di una ufficiale shoes addiction – e no, non per via del mio cognome: è una mania relativamente recente, degli ultimi anni. Il mio cognome ce l’ho dalla nascita, ma la mania delle scarpe no, quindi non c’entra, pare.

Per mia grande fortuna la mia collezione non mi costa nemmeno granché: nel mio quartiere ci sono numerosi negozietti di cose usate – dove si portano vestiti, cianfrusaglie, borse e borsoni, tazze, piatti e piattini, bicchieri, cappelli, sciarpe, e anche stivali, stivaletti, sandali e scarpe. Per dar loro generosamente una seconda (o terza, o quarta) chance, nella loro muta vita di oggetti: che possano venir apprezzati da altri esseri umani, sollevati dal nimbo di noncuranza in cui erano caduti da tempo, impolverati in qualche angolo.

Il fatto che questi oggetti disperati – si, disperati come cani al canile e gatti al gattile, in attesa, come sono, di essere scelti, di attenzioni e amore – che questi oggetti disperati dunque costino pochissimo probabilmente aumenta la mia disponibilità ad accogliere nella mia vita più scarpe di quelle che posso consumare. La soglia del dolore per la parte di me piuttosto prudente nelle spese è davvero bassa, ma questi rari esemplari non la raggiungono mai. Pezzi unici, tutti, la sorte decide se la misura è la mia e se calzano alla perfezione – e allora non resisto. E salvo la scarpa, spesso mai utilizzata, e che quindi non ha mai davvero vissuto, per esser finita lì, dimenticata e messa da parte, esclusa dalla vita, ormai finita in questi canili delle cose, la salvo dal suo triste destino di reietta.

Ma se vi elevo a pezzi di una collezione, mie care scarpe, in modo da non dover davvero credere che siate “troppe”, bene, allora almeno avrete un diritto alla catalogazione e all’attenzione di cui perfino voi, piccole cose, avete bisogno.

Ma poi a che servono le scarpe, e così tante poi? Perché ci siete?

Incomprese e docili. Vi lasciate infilare e sfilare, difendete i nostri piedi da sassolini, fango, pioggia e vento, chiodi, selciato, ghiaia. Li sostenete nella loro lunga o breve marcia attraverso le giornate. Date qualità al nostro passo. E musica: il tichettìo del tacco annuncia l’incedere – incerto, sicuro, deciso, strisciante…

Il mio umore dipende dal tempo atmosferico e dalle scarpe che infilo: una tensione sopra-sotto, dall’alto dei cieli alla misera terra, ma terra-terra proprio in cui è infilato il mio essere, grato alla forza di gravità, che la tiene bel piantata sul pianeta terra.

Ma non piantata come un albero – che se ne sta li al suo posto – no, noi umani camminiamo e ce ne andiamo, è il nostro modo di fare, per cui abbiamo da tempo inventato le scarpe.

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