Nel nostro ordinamento la polizia giudiziaria ha una funzione sociale molto importante: alle dipendenze di una magistratura autonoma – cioè libera da condizionamenti esterni – raccoglie le prove dei delitti commessi da ogni tipo di delinquente, dal povero ladro di polli al ricco corrotto. Perché “la legge è uguale per tutti”, c’è scritto nelle aule dei tribunali.

Eppure la storia d’Italia insegna che le inchieste sulla delinquenza dei potenti e dei gruppi criminali legati e funzionali al potere risultano troppo spesso inefficaci. Ne Il giorno della civetta, Leonardo Sciascia racconta di un capitano dei carabinieri che ebbe in Sicilia la malsana pretesa di indagare su un mafioso ben ammanicato con la politica romana: tutto si concluse in un nulla di fatto grazie a depistaggi ben congegnati.

Passando dalla narrativa alla realtà, se io volessi scrivere il “libro nero della polizia giudiziaria”, comincerei dalle indagini sulla misteriosa morte del bandito Salvatore Giuliano, che servirono tanto alla sfavillante carriera politica di Mario Scelba ma molto poco a scoprire la verità su quell’omicidio. “Siamo un corpo solo, banditi, polizia e mafia, come il padre, il figlio e lo spirito santo”, disse Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano, prima di bere in carcere un caffè corretto alla stricnina.

Subito dopo mi soffermerei sui depistaggi del caso Moro e del caso Impastato. Poi parlerei delle indagini insabbiate sulle stragi che, dal 1969 al 1984, hanno insanguinato il nostro Paese, con centocinquanta morti e oltre seicento feriti: ancora oggi, quasi tutti quei crimini sono senza colpevoli, esecutori, mandanti. Quindi arriverei alla cosiddetta seconda Repubblica, dove non mancano certo i casi di indagini in qualche modo inquinate: dalla trattativa Stato-Mafia alla vicenda Consip.

Ebbene la qualità delle indagini dipende senza dubbio dalla preparazione e dall’acutezza degli inquirenti. Ma quando esse riguardano la criminalità dei potenti, i coefficienti di errore e di impunità crescono per i motivi più disparati, fisiologici e patologici: timidezza degli investigatori, bravura degli avvocati, indebite ingerenze dei superiori, pressione mediatica, inquinamento delle prove, corruzione, ecc.

La regola del segreto investigativo metterebbe la polizia giudiziaria al riparo da interferenze esterne, ma l’effettività del principio può essere insidiata da quel generico obbligo di comunicazione alla gerarchia superiore – i vertici gerarchici sono legati al potere esecutivo e i generali perdono finanche la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria – proprio delle organizzazioni a ordinamento militare. In linea di massima, più l’indagine è conoscibile, maggiore è il pericolo di non ottenere risultati soddisfacenti.

Nella scorsa legislatura, una norma approvata di soppiatto a Ferragosto del 2016 obbligava persino, senza mezzi termini, i responsabili di ciascun presidio di polizia a “trasmettere alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale”: in netto contrasto coi principi di autonomia della magistratura e di dipendenza della polizia giudiziaria dal pubblico ministero, è già stata cancellata dalla Corte costituzionale.

Tuttavia, come ha più volte sottolineato Cleto Iafrate, esperto di diritto militare e pioniere del sindacalismo militare, resta ancora in vigore un’altra norma di dubbia legittimità costituzionale, ereditata pari pari da un regio decreto del 1911, che impone ai comandi dell’Arma dei carabinieri di informare la scala gerarchica della trasmissione delle informative di reato all’autorità giudiziaria. È l’articolo 237 del Testo Unico delle disposizioni in materia di ordinamento militare.

Dunque, che ci sia da sempre, da parte dei potenti, la volontà di manipolare le indagini di polizia giudiziaria è comprensibile. L’interesse pubblico va invece nella direzione opposta: occorre salvaguardare il segreto investigativo e difendere gli inquirenti da indebite pressioni e prevaricazioni, magari con mirati interventi normativi.

E ovviamente preservare l’indipendenza della magistratura. Solo così i cittadini potranno essere davvero tutti uguali davanti alla legge. Un tema così fondamentale non appare purtroppo tra le priorità della politica. Però dovrebbe essere un cavallo di battaglia dei neonati sindacati militari. Me lo auguro.

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