Quattro operatori sanitari uccisi in una sola notte, in due assalti di gruppi armati quasi simultanei avvenuti in due località distanti fra loro, mentre le forze di sicurezza reprimono le proteste della popolazione sparando ad altezza uomo. È caos nell’est della Repubblica Democratica del Congo dopo l’attacco più sanguinoso dallo scoppio dell’epidemia di ebola, ad agosto 2018. L’episodio più grave si è registrato a Biakato, nella regione dell’Ituri, dove una base dell’Oms è stata presa d’assalto da uomini armati nella notte fra mercoledì e giovedì. Nel compound risiedevano 180 persone di diverse organizzazioni, tutte specializzate nella risposta al virus. Tre i morti, sei i feriti e diversi veicoli dati alle fiamme. Gli assalitori hanno preso di mira anche il locale sottocommissariato di polizia, saccheggiandolo e permettendo la fuga dei detenuti. All’appello manca uno degli agenti, tutt’ora disperso.

Nelle stesse ore, a una cinquantina di chilometri, nella località di Mangina, provincia del Nord Kivu, territorio di Beni, un altro attacco colpiva un centro di trattamento per ebola. Ucciso un operatore e anche un assalitore, colpito dalle forze di sicurezza che erano nel frattempo intervenute. Ad oggi, non è dato sapere se i due episodi siano coordinati, le autorità stanno cercando di appurarlo, ma le violenze crescenti nella regione avevano già spinto l’Oms nei giorni scorsi a trasferire la metà del personale a Goma, il capoluogo, situato più a sud e attualmente non coinvolto dall’epidemia. Nella zona di Beni, dove invece i contagi restano ancora elevati, si teme che l’assenza di personale specializzato vanifichi gli sforzi sostenuti finora per contenere il virus. I morti ufficialmente registrati, secondo i dati Oms aggiornati al 27 novembre, sono 2199, con 3186 casi confermati e 118 probabili di contagio. Mortalità attestata al 67%, nonostante la buona risposta alle terapie farmacologiche (se i malati giungono tempestivamente ai centri di cura) e nonostante l’elevata efficacia del vaccino in uso da un anno, al quale da pochissimo se ne è affiancato un secondo.

Ebola resta una sfida per chi sul campo cerca di contenere i contagi mettendo in atto tutte le pratiche sanitarie utili. Ma il lavoro degli operatori sanitari è reso ben più difficile dalla situazione legata alla sicurezza, anch’essa in rapido degrado: Beni è l’epicentro dal 2014 di ripetuti attacchi di gruppi armati che fanno strage di civili in maniera estremamente cruenta. E la gente è stanca:
il motivo non è più legato solo alle credenze complottistiche che vedono nel virus ebola un’altra arma per sterminare la popolazione, ma ormai si diffida del vaccino e delle cure messe in campo da chi, dicono, non si cura invece di fermare i massacri. Gli attacchi ai centri sanitari nascondono quindi un disagio ben più radicato.

Da una settimana la gente in collera chiede anche la ritirata definitiva della Monusco, la missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione della Rdc, la più grande e costosa missione dell’Onu, attiva da vent’anni, ma senza risultati. Così asserisce la popolazione. La rabbia stava già montando nello scorso fine settimana, dopo l’ennesimo massacro. A complicare le cose, sabato un manifestante disarmato era stato ucciso dalla polizia.

Lunedì centinaia di persone sono scese nelle strade a Beni, in seguito a un nuovo attacco nella notte precedente che aveva provocato la morte di otto persone. I manifestanti hanno dato alle fiamme il municipio e hanno poi preso d’assalto la sede della Monusco. Le forze di sicurezza hanno risposto di nuovo sparando ad altezza d’uomo.

Martedì, un secondo manifestante è stato ucciso, stavolta dai Caschi Blu. Fatto che ha scandalizzato l’intero Paese. La notte fra martedì e mercoledì, un altro massacro. Bilancio: 27 morti. E la rabbia è diventata incontenibile. Sono 107 i civili uccisi dal 5 novembre nei diversi assalti ai villaggi del “triangolo della morte”, nel territorio di Beni. Una lunga scia di morti senza responsabili, un fantomatico gruppo armato detto Adf (di cui da tempo la società civile locale denuncia complicità e coperture ad alti livelli), ora anche i caschi blu che sparano sui manifestanti. Se a tutto questo si somma ebola, la miscela diventa davvero esplosiva. “Il mondo intero si muove, allarmato per l’epidemia, ma nessuno fa nulla per fermare i massacri”: così appare la situazione agli abitanti del Nord Kivu e dell’Ituri.

Sui social, le informazioni e le “catene” che girano dicono anche di peggio: la Monusco viene accusata non solo di inattività, ma addirittura di complicità con i carnefici. Notizie incontrollate, foto e screenshot di dubbia provenienza contribuiscono a esacerbare gli animi. “Trop c’est trop” dicono. Quando è troppo è troppo. “La Monusco se ne vada e lasci il posto a una missione stile Artemis per debellare una volta per tutte i gruppi armati”, chiedevano i giovani durante le manifestazioni a Beni, facendo proprio l’invito giunto il 20 novembre dal dottor Denis Mukwege, il Premio Nobel per la pace 2018: “Lanciamo un appello all’azione alle autorità congolesi e alla comunità internazionale per arginare la spirale di violenza e mettere un termine ai crimini di massa e all’enorme sofferenza che subisce la popolazione di Beni. L’indifferenza deve cessare, servono azioni concrete. Mi riferisco all’azione coraggiosa intrapresa nel 2003 dall’Unione Europea sotto l’autorità del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con l’operazione Artemis, che aveva messo fine a un principio di genocidio in Ituri. Se l’esercito congolese e la Monusco non sono stati in grado di risolvere la situazione a Beni in 5 anni, non possiamo continuare a stare a guardare l’inguardabile senza reagire. Atti di terrorismo sui civili, donne uccise, esposte nude in pubblico, bambini massacrati, rapimenti, centri di salute distrutti, chiese incendiate. Lanciamo un appello all’Unione Europea e in particolare alla Francia perché prendano in considerazione l’invio di truppe scelte per proteggere la popolazione civile di Beni contro un terrorismo cieco”.

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