Erano tra i finanziatori della fondazione Open. E hanno beneficiato di alcune scelte del governo di Matteo Renzi. Sono alcuni degli imprenditori che nelle ultime ore hanno subito una perquisizione della Guardia di finanza. L’inchiesta è quella sulla cassaforte che ha accompagnato l’ex premier durante tutta la sua ascesa: prima alla segreteria del Pd, poi a Palazzo Chigi. La stessa fondazione che metteva i soldi per la Leopolda, l’ormai classico raduno annuale dei renziani di tutta Italia. Altri tempi: adesso, infatti, Open è finita al centro dell’indagine della procura di Firenze. I pm hanno ordinato perquisizioni in undici città italiane. Il lavoro dei investigatori va avanti da due giorni e ha fatto arrabbiare l’ex segretario del Pd. I finanziatori che hanno garantito la sua ascesa non sono indagati ma si sono visti piombare gli investigatori in casa e in azienda. E soprattutto hanno visto definitivamente cadere il segreto su quelle elargizioni di denaro fatte in tempi non sospetti alla cassaforte dell’allora presidente del consiglio. Ma andiamo con ordine.

La storia di Big Bang – Nata con il nome di Big Bang nel 2012, all’epoca della prima candidatura alle primarie di Renzi, la fondazione è stata poi registrata come Open alla prefettura di Pistoia. Il suo presidente, Alberto Bianchi, è un noto avvocato amministrativista piazzato nel consiglio d’amministrazione dell’Enel. Oggi è indagato per traffico di influenze illecite. Con lui a dirigere Open sedevano in consiglio d’amministrazione tre renziani della primissima ora: Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. Anche quest’ultimo è coinvolto nell’indagine con l’accusa di finanziamento illecito. In sei anni, cioè il periodo dell’ascesa e discesa di Renzi, Open ha incassato dai privati 6 milioni e 700mila euro. Chi sono quei privati? La fondazione ha gestito negli anni un sito web dove pubblicava i nomi dei suoi finanziatori. Ma non tutti i personaggi e le aziende che donavano denaro venivano resi noti: molti infatti preferivano mantenere l’anonimato. Tutto regolare: all’epoca, infatti, la legge accordava a partiti e fondazioni la possibilità di rendere pubblici solo i nomi di chi avesse dato il consenso alla diffusione dei propri dati personali. Open chiude alla fine del 2017, dopo la batosta del referendum e le dimissioni di Renzi da segretario del Pd: viene sostituita da Eyu di Francesco Bonifazi, anche questa al centro di indagini. Secondo il Corriere della Sera, con la chiusura di Open è rimasto segreto il 40% dei nomi dei finanziatori che non avevano dato il via libera alla diffusione dei loro dati. “I finanziamenti alla fondazione sono tutti regolarmente tracciati: trasparenza totale“, ha detto Renzi nelle ore successive alla perquisizione. “Siamo la fondazione italiana più trasparente in assoluto. Lo certifica anche Openpolis che ha analizzato almeno 60 istituzioni come la nostra”, ha ripetuto più volte Bianchi. Tutte le persone coinvolte in queste storia ci tengono a manifestare la propria correttezza, sottolineando l’assoluta trasparenza nella gestione di Open.

Autostrade per Open – Fino a questo momento, però, la procura di Firenze sembra pensarla diversamente. Dopo essere stati nello studio dell’avvocato Bianchi, perquisito il 22 settembre scorso, i finanzieri che indagano su Open sono entrati negli uffici del gruppo Gavio, che in Italia – tra le altre cose – gestisce circa 1.423 km di rete autostradale. È il secondo concessionario dopo Autostrade per l’Italia e prima del gruppo Toto. Insieme ai Benetton e ai Toto, ha beneficiato dell’articolo 5 inserito nel decreto Sblocca Italia il 5 novembre del 2014: all’epoca Renzi sedeva a Palazzo Chigi mentre il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture era Maurizio Lupi. Quella legge prevedeva per i concessionari la possibilità di modificare la convenzione in corso con lo Stato e stipulare un atto aggiuntivo a fronte di nuovo piano economico-finanziario e di un preventivo assenso dell’Ue. Un meccanismo che ha portato le società a ottenere una proroga delle concessioni. Contestato dalla commissione Ue e dall’Antitrust, quell’articolo è stato pesantemente criticato nei giorni del crollo del Ponte Morandi.

Il caso Toto – A beneficiarne non furono solo i Gavio, ma anche il gruppo Toto. Tutta l’indagine su Open è nata da un pagamento effettuato dalla società di costruzioni della famiglia abruzzese all’avvocato Bianchi. Sulla carta si trattava di una consulenza, ma secondo la procura parte di quei soldi è stata poi versata da Bianchi alla fondazione. Per quale motivo? Nei giorni scorsi il Tribunale del Riesame, confermando i sequestri eseguiti a carico del legale, ha scritto che il gruppo Toto ha compiuto operazioni “dissimulatorie” per finanziare Open. L’inchiesta parte da un incarico affidato da Toto Costruzioni Generali allo studio Bianchi per un contenzioso con Autostrade. Per quell’incarico l’avvocato incassa 800mila euro il 2 agosto del 2016. Poco più di un mese dopo, il 12 settembre 2016, Bianchi gira la metà di quei soldi alla galassia renziana: 200mila euro vanno alla Fondazione Open, altri 200mila al Comitato per il Sì al referendum costituzionale. Sempre nel 2016, ultimo anno di Renzi premier, la Toto Costruzioni Generali ha elargito allo studio legale Bianchi quasi due milioni di euro. Erano davvero solo soldi dovuti a Bianchi come parcella? O servivano per finanziare Renzi? E in cambio di cosa?

La Strada dei Parchi – Nei mesi successivi al versamento di quella parcella, il gruppo Toto incassa una decisione favorevole dal governo all’epoca guidato da Paolo Gentiloni. Si tratta di un emendamento alla manovra economica che sanava un debito di 121 milioni della società dei Toto, Strada dei Parchi, titolare di concessioni autostradali, con Anas. La società pubblica avrebbe potuto chiedere fino a 782 milioni ma il governo mediò: all’Anas dovevano andare 121 milioni, ma sarebbero stati impiegati dal concessionario per i lavori di manutenzione autostradale. Tramite Renexia, una sua controllata, il gruppo Toto ha poi dato 25mila euro a Open: “Confermo abbiamo finanziato la fondazione, peraltro in modalità pubbliche, nella assoluta regolarità”, ha detto Daniele Toto, per anni amministratore della società ed ex parlamentare del centrodestra.

La lobby del tabacco – A cosa erano legati, dunque, i soldi girati dalle aziende a Open? È quello che vogliono capire gli investigatori. Nel decreto di perquisizione, infatti, si chiede esplicitamente di “accertare quali siano in dettaglio, i rapporti instauratisi tra la Fondazione Open e i soggetti finanziatori della Fondazione”. Visto che Open era “un’articolazione di un partito politico” perché i suoi sostenitori avevano deciso di finanziarla? In cambio di cosa? Di favori ottenuti dal governo? Tra gli uffici visitati dalla finanza ci sono anche quelli della Bat, British American Tobacco. È il primo giorno di luglio del 2014 quando dalla multinazionale delle sigarette arriva un bonifico da centomila euro alla Open. Un versamento che – come aveva raccontato nel 2016 il fattoquotidiano.it – era stato inviato nelle stesse settimane in cui il governo Renzi annunciava un decreto di riordino del settore dei tabacchi. L’obiettivo, si leggeva sui giornali, era aumentare le accise fino al trenta percento. Un aumento delle tasse sui tabacchi che non dispiaceva ai colossi del settore, come la Philip Morris. In caso di tasse più alte, infatti, ad essere maggiormente penalizzati sono i marchi che vendono sigarette di fascia bassa, cioè più economiche, come appunto la Bat. Il provvedimento per l’aumento delle accise sui tabacchi era indicato all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri per due volte, ma poi scompare nel nulla. Era rispuntato a sorpresa il 31 luglio del 2014: a un mese dal bonifico della Bat alla fondazione di Renzi, il governo aveva dato il via via libera all’aumento delle tasse sulle sigarette. Ma si trattava di un aumento molto minore di quello annunciato in precedenza: si fermava, infatti, solo al 10 percento. E il 3 ottobre del 2014 Bat aveva festeggiato lo scampato pericolo annunciando un piano d’investimento quinquennale da un miliardo di euro in Italia. Nelle scorse ore ha ricevuto la visita dei finanzieri.

Gli altri soldi – Gli uomini delle Fiamme gialle sono andati anche a Marcianise alla Getra Power che alla Open aveva dato 150mila euro. L’11 giugno 2016, tre anni e mezzo prima della finanza, a visitare gli stabilimenti dell’azienda che produce trasformatori elettrici era andato anche l’allora premier Renzi. E Marco Zigon, presidente della società che fattura 100 milioni di euro, diceva entusiasta: “L’ampliamento degli stabilimenti è stato reso possibile dalla virtuosa collaborazione tra azienda, istituzioni e Invitalia”. Era noto che anche Alfredo Romeo, l’imprenditore al centro dell’inchiesta Consip, avesse finanziato Open, mentre Vincenzo Onorato era una delle poche persone fisiche che aveva scelto di apparire con nome e cognome tra i sostenitori dell’ex premier. Nel 2016, l’anno del referendum, aveva dato 50mila euro a titolo personale e 100mila euro con la sua Moby. Nello stesso anno il governo di Renzi doveva recuperare un debito da 180 milioni dallo stesso Onorato. Si trattava delle rate ancora dovute allo Stato per l’acquisizione da parte dell’armatore dell’ex compagnia pubblica Tirrenia. Chi aveva messo a capo della bad company pubblica l’allora ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi per cercare di recuperare il debito? L’avvocato Beniamino Caravita di Toritto, professionista noto stimato e che – come ha raccontato ilfattoquotidiano.it – aveva alle spalle un rapporto ultradecennale con Onorato e la Moby. All’epoca il governo non ebbe nulla ad eccepire.

Twitter: @pipitone87

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