“Vivo con i miei figli una violenza estenuante, seppur non visibile agli occhi degli altri”. E’ cosi che inizia una delle tante email che arrivano a “Mia Economia”, lo sportello che aiuta le donne a riconoscere e affrontare la violenza economica, inaugurato un anno fa da Fondazione Pangea Onlus con l’avvio del progetto Reama, la rete per l’empowerment e l’auto mutuo aiuto per le donne che vivono la violenza.

Si tratta di una forma di violenza di cui si parla poco, perché non lascia segni evidenti ma che risulta altrettanto grave proprio perché subdola.

A pochi giorni dalla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne e all’indomani della pubblicazione del rapporto Eures 2019 su “Femminicidio e violenza di genere in Italia”, che evidenzia una crescita esponenziale della violenza contro le donne (tre donne ammazzate ogni settimana per un totale di 142 femminicidi solo nel 2018, con una percentuale di 40,3%), Fondazione Pangea e la rete Reama hanno reso noti i dati di un anno di lavoro dello sportello di Mia Economia.

“La casistica parla chiaro – afferma Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea – tutte riconoscono di aver vissuto già altre forme di violenza quale stalking, violenza fisica, sessuale e soprattutto psicologica. Ma la consapevolezza rispetto alla violenza economica arriva strada facendo in un lungo e complicato percorso di presa di coscienza del vuoto che lui le ha creato intorno, magari allontanandola dal lavoro, fino a renderla dipendente economicamente”.

In un anno dall’avvio di questa sperimentazione, le donne che si sono rivolte allo sportello di Mia Economica sono state 52, in una fascia di età che va tra i 40 e i 60 anni. Cinquanta di loro con figli e ben 51 già con un avvocato civilista, penalista o entrambi, nominati per le violenze subite in passato ma cambiati diverse volte.

Tra le donne prese in carico, sei avevano un proprio reddito che però veniva controllato esclusivamente dal marito, tutte le altre dipendevano economicamente dal partner. Nei casi di separazione, 16 donne pur avendo diritto all’assegno di mantenimento non lo ricevevano anche in presenza i figli, che quindi pativano insieme alla madre degli effetti della violenza economica.
Quarantasei donne hanno dichiarato di avere beni in condivisione con il partner (casa, conto corrente o altro), 11 hanno riscontrato di avere beni intestati senza poterne usufruire o si sono fatte utilizzare per fare da copertura per società o aziende e 14 sono risultate morose senza esserne a conoscenza.

Riconosciuta dalla Convenzione di Istanbul come vera e propria forma di coercizione, la violenza economica colpisce dunque le donne di ogni età e di ogni ceto sociale e le porta a indebitamento, mancanza di liquidità, costrizione dei consumi, impossibilità di andare a lavoro, controllo sulle carte di credito e sui conti correnti, sino ad arrivare agli stenti, a non poter mandare i figli all’università e non poter acquistare loro da mangiare o da vestire.

Questi comportamenti non solo generano una forma di controllo che impedisce l’indipendenza economica della donna ma creano anche uno stato di soggezione. La violenza economica è dunque una forma di violenza nascosta, perché non porta segni evidenti sul corpo ma lentamente logora le donne, rendendole dipendenti economicamente e psicologicamente, impedendo loro di poter andare via dalla casa del maltrattante. E’ per questo che è necessario parlarne, alla vigilia del 25 novembre come ogni giorno, perché culturalmente inizi a passare l’idea che il controllo ha tante facce e quella economica è una di queste.

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