Di salute e sanità parliamo e ci occupiamo tutti, ogni giorno. Ma nei Consigli regionali l’approccio della politica a questo tema è in genere uno soltanto: chiedere più soldi. Io propongo un cambio di paradigma, perché lo scopo di una buona riforma sanitaria non è aumentare o ridurre i costi, ma garantire la sicurezza nel percorso di cura. E la prima sfida è farlo spendendo meno, soprattutto per quei partiti che dichiarano di voler contenere la spesa pubblica (la sanità costa 120 miliardi l’anno).

Una rivoluzione necessaria per mantenere e migliorare il welfare universale, ma anche per creare sviluppo partendo dalla sanità. Il nostro sistema sanitario è ancora uno dei migliori al mondo, nonostante una regia politica molto migliorabile e una gestione regionale che ha accentuato le diseguaglianze nell’offerta. In questo campo le scelte di governo devono obbedire a un solo principio: migliorare il livello di salute. Non è ovvio come appare, perché nei fatti molte decisioni – anche rilevanti – rispondono ad esigenze interne al mondo sanitario più che al benessere dei pazienti.

Mi spiego meglio: per la legittima azione di lobbisti di vario tipo – medici e infermieri organizzati, aziende sanitarie, aziende che producono dispositivi e servizi, tutto il vasto mondo dell’indotto – le decisioni di spesa finiscono per essere influenzate da interessi particolari, più che da documentati o dimostrabili vantaggi collettivi. Ciò non si verifica solo in sanità pubblica, ma in tutti i sistemi di grandi dimensioni. Nei Paesi industrializzati il settore sanitario gioca un ruolo di primo piano per risorse, numero di occupati, complessità organizzativa, impatto sociale e impatto politico-elettorale. In media vale il 9% del Pil, ma in alcuni Paesi anche l’11 o il 12% (negli Usa il 17%). Dunque è necessario, tra più scelte di politica sanitaria, adottare quella che garantisce maggiori vantaggi per la salute pubblica.

Ma esiste un “giusto” livello di spesa sanitaria? E se sì, qual è il suo valore?

Le evidenze scientifiche mostrano che, nei Paesi a bassa spesa sanitaria, un suo innalzamento può produrre una notevole crescita di salute, mentre negli Stati che già spendono oltre una certa soglia – quelli ricchi e industrializzati – un aumento ulteriore di spesa non garantisce un corrispondente aumento della salute pubblica. In questi casi ha molto più senso concentrarsi sull’efficacia delle risorse già investite. A tale conclusione si arriva osservando sia il rapporto spesa sanitaria/salute in tutti i Paesi del mondo, sia le conclusioni di alcuni modelli e studi sull’argomento (ad esempio il modello Dea dell’Oecd, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).

Ebbene: il valore al di sopra del quale è inutile aumentare la spesa – perché non si ottengono risultati significativi – è di circa 2500 dollari pro capite, a parità di potere d’acquisto. Per i medici, funziona un po’ come la curva di dissociazione dell’emoglobina: ogni dollaro in più che si investe ha sempre minor impatto sulla salute pubblica. Per esempi concreti si osservi questa tabella in cui si confrontano spesa sanitaria e aspettativa di vita di alcuni Paesi simili all’Italia per sviluppo (dati Oecd, Health Statistics 2017, riferiti al 2016):

Com’è evidente, oltre un certo livello di spesa l’aspettativa di vita tende a non crescere più, ma rimane la stessa. Per aumentare il livello di salute, allora, è più utile agire su altri determinanti, attraverso riforme capaci di affinare i criteri di spesa.

Nello scorso secolo l’aspettativa di vita è aumentata come mai prima in tutta la storia dell’uomo. Il risultato è che la composizione della popolazione per classi di età è variata notevolmente: la “piramide demografica” dell’Italia del 1950 si è già trasformata in una botte e presto, nel 2050, somiglierà a un cilindro (Fonte: PopulationPyramid.net):

Se la sfida è migliorare la salute e il percorso di cura spendendo meno, ogni riallocazione di risorse, dovuta ad aumento o a risparmio, nel Fondo sanitario nazionale deve rispondere a obiettivi specifici dichiarati e quantificabili. Un esempio: l’espansione di servizi pubblici in settori quasi del tutto in mano ai privati, come oculistica, odontoiatria, salute mentale e servizi per anziani a basso impatto tecnologico.

Parliamo di questi ultimi: le cure per le malattie croniche e per la disabilità sono le “parenti povere” del sistema. Il settore dell’assistenza agli anziani si basa sulle badanti, che in Italia sono più degli infermieri e sono a carico delle famiglie. Evitiamo, allora, che aumenti indiscriminati del Fondo sanitario nazionale servano solo a tamponare i difetti attuali, rinviandone il superamento.

A questo link trovate le 25 pagine della bozza di dossier per una riforma sanitaria che presenterò al prossimo congresso nazionale di Radicali Italiani a Torino (1-3 novembre). Si chiama “Sanità Radicale: per una riforma sanitaria liberale con responsabilità sociale”. Mi auguro che da questo documento possa nascere un confronto propositivo per migliorare la proposta, diffonderla e far sì che il rapporto tra salute/sanità e politica torni in cima all’agenda dei potenti di questo paese. Possiamo convincerli solo con la competenza.

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