“L’influenza che avrà questo premio ci darà un megafono”. È la promessa di Esther Duflo, 46enne docente francese del Mit e più giovane vincitrice del Nobel all’economia, oltre che seconda donna dopo Elinor Ostrom nel 2009. Duflo ha condiviso il premio con il marito e docente del Mit Abhijit Banerjee, indiano, e l’ex collega Michael Kremer, americano e oggi ad Harvard, per “l’approccio sperimentale, volto a far emergere i modi migliori per combattere la povertà, che ha trasformato l’economia dello sviluppo”. Un approccio fondato sull’osservazione dei comportamenti delle persone, identificando problemi specifici nelle comunità povere, e conducendo esperimenti tramite metodologie prese in prestito dai trial clinici per verificarne le soluzioni.

Nel 2003 Duflo fu coinvolta in un gruppo di lavoro che aveva l’obiettivo di risolvere il problema dell’assenteismo degli insegnanti nelle scuole rurali condotte da una organizzazione non profit indiana. L’esperimento messo in campo coinvolse 120 scuole, in 60 delle quali, scelte a caso, venne chiesto agli insegnanti di scattare ogni giorno una foto con gli alunni all’inizio e alla fine della giornata, con una macchina fotografica che registrasse giorno e ora, collegando lo stipendio alla presenza effettiva. Nelle altre 60, invece, tutto restava inalterato. L’introduzione del programma fece registrare un rapido abbattimento del tasso di assenteismo: nelle scuole campione si fermò al 22%, rispetto al 42% delle scuole dove la foto non era stata richiesta. Il programma permise un miglior apprendimento dei bambini, che dopo un anno incrementarono del 40% l’ammissione nelle scuole regolari.

“Odiavo l’economia”, ha detto Duflo alcuni anni fa al New Yorker. Cresciuta a Parigi con un padre professore di matematica e una madre pediatra che ogni anno dedicava alcune settimane ad aiutare i bambini vittime di guerra prima nel Sahara occidentale e poi a El Salvador e in Rwanda, Duflo studia Storia alla École Normale Supérieure, e sentendosi portata verso la matematica approfondisce anche materie economiche. Non ancora convinta sulla strada da intraprendere, a metà del secondo anno si trasferisce per 10 mesi a Mosca, dove insegna francese, e lavora con alcuni economisti, tra cui Jeffrey Sachs, allora professore ad Harvard. Dopo il ritorno a Parigi e la conclusione della laurea, Duflo si trasferisce al Mit, dove, digiuna fino a quel momento di economia dello sviluppo, rimane folgorata dalle lezioni di Abhijit Banerjee. “Dopo un mese ero convinta, era chiaro che questa fosse la mia strada”.

Banerjee, critico verso i modelli tradizionali, diventa suo supervisore e nel 1997 accompagna Duflo per la prima volta in India, a Calcutta. Qui la giovane francese non trova una megalopoli compressa e sovraffollata come immaginava, bensì una città che presenta anche verde e spazi vuoti, e pochi segni della miseria rappresentata in un fumetto su Madre Teresa di Calcutta che aveva letto da bambina. “Questo bisogno di ridurre i poveri a una serie di clichés ci accompagna almeno da quanto ci accompagna la povertà”, scriveranno i due nel 2011 nel loro lavoro più importante, “Poor Economics”, esaminando la natura della povertà e la reazione dei poveri agli incentivi. Ammirati o compatiti, i poveri non vengono considerati nella loro esistenza più piena, e “sfortunatamente questa incomprensione indebolisce severamente la lotta contro la povertà globale. Problemi semplici conducono a soluzioni semplici. C’è bisogno di non ridurre più i poveri a caricature, ma di capire veramente le loro vite, in tutta la loro complessità e ricchezza”.

Concluso il dottorato nel 1999, Duflo a 29 anni diventa professore associato al Mit. Un anno dopo riceve offerte da Princeton e Yale, che le danno la forza per convincere l’università a finanziare con 300.000 dollari la nascita nel 2003 dell’Abdul Latif Jameel Poverty Action Lab, creato insieme a Banerjee. Questo significò “trasformare un progetto che alcuni visionari stavano portando avanti nel retrobottega, in qualcosa di istituzionale e serio”, ha detto Duflo. Da allora i due hanno concluso dai 70 agli 80 esperimenti, soprattutto in India e in Africa. Qui, nel Kenya rurale degli anni ‘90, Michael Kremer per primo sperimentò l’approccio clinico, dimostrando, contrariamente alla letteratura esistente, che la fornitura di libri di testo non aveva effetti sui risultati degli studenti. Sebbene migliorassero il rendimento dei più bravi, cioè quelli con risultati migliori già prima del test, i libri non incidevano sugli altri. E questo perché i libri erano scritti in inglese, che per la maggior parte dei ragazzi rappresentava solo la terza lingua. Secondo Kremer l’approccio fino a quel momento perseguito si rivolgeva solo agli studenti più forti, lasciandone indietro tanti altri, amplificando il potere delle élite e la diseguaglianza sociale.

Banerjee e Duflo sostengono che l’approccio tradizionale all’economia dello sviluppo abbia lasciato tante macerie nel campo delle politiche anti-povertà, tese a giudicare non solo come le persone vivano le proprie vite, ma anche a determinare come debbano farlo. “In entrambi i casi – ha detto all’inizio di quest’anno Banerjee in un’intervista al Council on Foreign Relations – stiamo imponendo le nostre supposizioni, che non sono necessariamente vere”. Banerjee ha rilevato che il 56% delle famiglie povere nei villaggi del Nicaragua ha una radio e il 21% una tv. Mentre in una località dello Stato indiano del Rajasthan, dove quasi nessuno possiede una tv, le persone più povere spendono il 14% del proprio denaro in festival. “Penso che la prima reazione di un economista, davanti a qualcuno che non ha abbastanza cibo e possiede una tv, sia: è irrazionale”, ha detto Banerjee. “Ma questo non ha niente a che vedere con la razionalità, riguarda di più quello che crediamo che le persone debbano fare”. Le ricerche di Banerjee hanno permesso di capire che anche le famiglie più povere hanno una tv perché nei villaggi non c’è molto da fare. “Qualcuno ci ha spiegato che riteneva la tv più importante del cibo, e ci stava dicendo la verità perché aveva una vita molto noiosa. Il senso di quello che ci stava dicendo era: sto facendo la scelta giusta, e puoi pensare che non sia giusta perché non vivi la mia vita”.

Comprendere la povertà significa comprendere l’umano in tutte le sue forme, le cui azioni sono tutt’altro che razionali, facendo appello agli small data che emergono dalle osservazioni. Dopo il premio a Richard Thaler nel 2017, teorico dell’economia comportamentale, la Royal Swedish Academy of Sciences dà un nuovo scossone all’homo oeconomicus dei modelli tradizionali per mettere al centro della scena un più realistico homo sapiens. Un approccio che necessita di una comprensione specifica dei fenomeni, non standardizzabile. Quando si è provato a risolvere il problema dell’assenteismo delle infermiere negli ospedali con la stessa tecnica applicata agli insegnanti nelle scuole, il programma ha funzionato per alcuni mesi, venendo poi ostacolato e dopo un anno e mezzo dimenticato. Dall’altra parte un approccio umano-centrico potenzialmente può trovare una soluzione a qualsiasi problema. Secondo i risultati degli studi dei nuovi premi Nobel, con le necessarie competenze di base, il sostegno delle istituzioni e la fiducia nelle loro abilità anche le famiglie nelle condizioni più critiche possono migliorare la propria condizione. Spesso rappresentati come avversi al rischio e poco inclini all’imprenditorialità, per Duflo invece i poveri amministrano la propria vita come gestori di un hedge fund, laddove nelle ristrettezze economiche il margine di errore è molto più alto. Al quotidiano indiano Mint nel 2011 ha detto: “Quello che il tempo con i poveri mi ha insegnato è che vivono delle vite molto più complicate delle nostre. Non dovendo occuparci ogni giorno di incombenze come l’acqua pulita, noi abbiamo il tempo di pensare ad altre cose”.

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