di Sandy Fiabane
(a nome dei Soci di Fatto)

Da buoni lettori del Fatto, il primo tema che si è posto alla nostra attenzione è stata la crescente disinformazione, soprattutto nel mondo del web di oggi.
Nel comunicato stampa del Consiglio Europeo del 20 giugno 2019, si legge come lo stesso Consiglio chieda “un impegno costante per sensibilizzare al tema della disinformazione e rafforzare la preparazione e la resilienza delle nostre democrazie di fronte a tale fenomeno”.

Diversi sono stati gli interventi a livello europeo nell’ambito delle politiche educative, poi recepiti dalla normativa italiana. Da molti anni l’attenzione verso questo tema è alta, vista la facilità di accesso alle notizie garantita alla maggioranza di noi: dal programma europeo Safer Internet alla promozione della media education da parte dell’Unesco, fino alla legge 107 del 2015, nota come la Buona scuola, e al suo Piano Nazionale per la Scuola Digitale. A leggere il sito del Miur, colpisce soprattutto la visione d’insieme, culturale più che meramente tecnologica: si tratta di “dare ai nostri studenti le chiavi di lettura del futuro”.

Ma siamo sicuri di possederle noi tutti? Come difenderci dal quel reale che viviamo sempre più spesso tramite la mediazione di post, hashtag e interpretazioni dei fatti finalizzate a catturare click (e voti)?

L’informazione oggi è capillare e martellante, ma spesso distorta. Il rischio più frequente è che si creino tifoserie incapaci di giudizio critico. Non vogliamo ovviamente generalizzare. Tuttavia diversi studi dimostrano una situazione di fatto suffragata soprattutto dai social network, di cui non possiamo negare la centralità del circuito dell’informazione. Sono interessanti le ricerche, ad esempio, dell’Istituto IMT Alti Studi Lucca sul contagio sociale e sulla fruizione dei contenuti sui social stessi. Per farla breve, si esaminano le dinamiche di interazione tra gli utenti di diversi gruppi online e quello che emerge è la tendenza generale a schierarsi quasi esclusivamente con punti di vista coerenti col proprio. E ciò porta a escludere il confronto, che è cardine di ogni democrazia.

Forse l’arma migliore per contrastare la facile credulità resta la cultura: una cultura che parte dalla scuola (digitale: è un’utopia pensare che vi si possa investire concretamente??), la quale ha il dovere di fornire ai giovani le competenze per affacciarsi anche alla realtà virtuale con spirito critico. Quando si denunciano delle fake news, le possibilità spesso sono due e in entrambi i casi ci si limita a rafforzare le proprie posizioni di partenza. Banalizzando: se ce le raccontiamo tra di noi, si convince gente già convinta; se le raccontiamo ad altri, rischiamo di essere presi per partigiani ideologicamente convinti e si alza un muro di incomprensione.

Rifiutando ogni visione acriticamente catastrofista che condanna il web e le nuove tecnologie, ci chiediamo: è possibile immaginare un presente che sappia cogliere in esse la risorsa che sono per costruire un futuro migliore? È troppo chiedere ai governi di incentivare quell’uso consapevole del digitale, e dei suoi contenuti? Gli sviluppi sulla bioetica, il contrasto vero al cambiamento climatico, le decisioni sulla nostra salute (si pensi solo ai vaccini), i dati effettivi sui fenomeni migratori e le loro cause, fino alle scelte elettorali: non dovrebbe passare tutto per una corretta informazione?

E perché magari non lanciare la provocazione di inserire nel Codice Penale una legge che punisca il rilascio di errate e distorcenti informazioni da parte di esponenti titolari di una responsabilità di governo ed amministrativa? Certo, la disinformazione è sempre esistita e sempre esisterà, ma da qui in avanti dobbiamo fare i conti con la sua diffusione potenzialmente universale. Quanto più è garantito a tutti l’accesso fisico ai mezzi digitali, tanto più si allarga il divario nelle competenze possedute: è lì che si gioca la società di domani ed è questo, forse, il miglior futuro che possiamo garantire a noi stessi.

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