Ieri sono intervenuto a un convegno sulla gig economy alla sede di via XX Settembre del Mef (Ministero dell’Economia e delle Finanze). L’occasione è stata fornita dalla presentazione dei risultati di uno studio molto interessante che l’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) sta conducendo assieme al Mef e all’Università La Sapienza di Roma con il patrocinio della Commissione Europea.

Lo studio è molto interessante e fornisce informazioni di prima mano su questo mondo, ancora ampiamente inesplorato, del lavoro nella gig economy ed è notevole per l’utilizzo di una banca dati estremamente utile che deriva dal merging di diverse banche dati, sia di natura campionaria che amministrativa. Il rapporto si sofferma non solo sui platform workers, ma anche sul lavoro precario.

Non vi annoio con i dettagli e rimando quanti fossero interessati a saperne di più al sito dell’Inapp, sul quale verranno pubblicati a breve in versione streaming gli interventi, sia quelli dei ricercatori Inapp sia quelli di chi è stato chiamato a commentare e a tirare le fila in termini anche di suggerimenti di policy e di ricerca per i prossimi sviluppi della ricerca. Del resto, la ricerca è molto ricca e complessa ed è impossibile riassumerla qua.

Mi soffermo solo su alcuni aspetti. Partirò da una domanda di fondo che è stata formulata dal dottor Ottavio Ricchi del Mef nel suo intervento. Il lavoro dei platform workers e dei riders, come vengono più comunemente chiamati in Italia, è davvero un tipo di lavoro nuovo oppure sembra tale a causa di un vuoto normativo? E come riempire questo vuoto normativo? La risposta a questa domanda ha implicazioni importanti per la previdenza sociale di questi lavoratori e anche per le finanze dello stato poiché, in ogni caso, occorrerà far fronte a una spesa più o meno ingente, a seconda del tipo di soluzione che prevale.

Due sono le soluzioni più comunemente suggerite per risolvere il problema. La prima è quella dei contributi figurativi. Uno dei findings più interessanti della ricerca è che i platform workers lavorano solo un numero limitato di settimane all’anno e questo riduce di molto i contributi sociali e assistenziali che potranno versare. Il rischio è allora che, con un sistema pensionistico ormai votato a una applicazione sistematica del principio contributivo, questi lavoratori arrivino a una pensione troppo bassa alla fine della carriera lavorativa. Come fare per consentire a questi lavoratori di raggiungere una pensione soddisfacente?

Una prima ipotesi è quella dei contributi figurativi, che sono già usati in casi analoghi quando il lavoratore ha un’interruzione del proprio rapporto di lavoro. Nel caso dei platform workers, però, l’entità di tali contributi potrebbe essere ingente nel corso del tempo e un’alternativa potrebbe essere di stabilire che, al di là dei contributi versati, ogni lavoratore riceva almeno una certa pensione minima.

Inoltre, bisogna essere attenti a distinguere fra chi svolge questo lavoro per periodi limitati di tempo e come integrazione di un altro reddito principale e chi ha solo questa entrata. Entrambe le soluzioni – contributi figurativi e pensione minima – presentano vantaggi e limiti. Entrambe possono disincentivare il versamento dei contributi con un ulteriore aggravio a danno del sistema di previdenza sociale e della fiscalità generale.

Una banca dati ricca come quella che l’Inapp sta raccogliendo e mettendo a disposizione del policy maker è fondamentale anche per rispondere a queste domande in modo non ideologico, ma in base a un calcolo rigoroso dei benefici e dei costi. Perciò è un bene che questo progetto continui e che l’Inapp continui a monitorare l’evoluzione della gig economy. Una soluzione alternativa potrebbe essere quella di inquadrare con contratti di lavoro tipici i lavoratori. E qui ritorna la domanda di prima. Perché i platform workers non lo sono ancora? È un caso di vuoto normativo che le imprese della gig economy interpretano a loro favore oppure effettivamente è un lavoro diverso da quelli del passato?

La mia risposta a questa domanda è molto semplice e forse un po’ tranchant, ma corrisponde anche alle richieste formulate dai giovani riders italiani e sintetizzate nella Carta di Bologna di cui abbiamo parlato in un precedente editoriale. Ogni lavoro è sempre stato la somma di più tasks. Anche nella fabbrica degli spilli di Adam Smith il lavoro veniva diviso in tanti piccoli task e ognuno si specializzava in uno solo. I lavoratori di Smith avrebbero dovuto essere pagati a prestazione per ogni task realizzato nel corso della giornata? E un cameriere di un ristorante viene pagato un certo tot ogni piatto che porta in tavola?

Eppure, anche in quel caso, il lavoro di cameriere è la somma di una serie di prestazioni singole svolte in un certo tempo. Anche il rider è sempre a disposizione del datore di lavoro, che lo gestisce tramite una piattaforma, e la richiesta delle sue prestazioni dipende dalla domanda di cibo della clientela. Ma non accade lo stesso in un ristorante? Anche in un ristorante capita di dover stare un certo tempo con le mani in mano.

Allora, delle due l’una: si paghino i camerieri e tutti gli altri lavoratori a pezzo, come i riders; oppure si inquadrino anche i riders come lavoratori dipendenti, con tutto quello che ne segue in termini di contributi e prestazioni sociali e previdenziali. Forse la soluzione migliore è proprio quella più semplice che si possa pensare.

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