Matteo Renzi lascia il Pd e lavora alla nascita di un nuovo partito. Per prima cosa formerà i gruppi parlamentari autonomi, formati da una trentina tra deputati e senatori, già “questa settimana”. “E saranno un bene per tutti”. Non solo per il segretario dem Nicola Zingaretti, ma anche per il premier Giuseppe Conte perché “probabilmente si allargherà la base del consenso parlamentare” del nuovo esecutivo che giudica “un miracolo”. L’ex premier spiega le ragioni dello strappo con il partito che voleva ripulire, rottamando la Ditta, in un’intervista a Repubblica. “Abbiamo fatto un capolavoro tattico mettendo in minoranza Salvini con gli strumenti della democrazia parlamentare“, ha dichiarato. “Ma il populismo cattivo che esprime non è battuto e va sconfitto nella società. E credo che le liturgie di un Pd organizzato scientificamente in correnti e impegnato in una faticosa e autoreferenziale ricerca dell’unità come bene supremo non funzionino più”.

Un addio, così tante volte annunciato e smentito, che ha anche confermato con un post pubblicato in mattinata sulla sua pagina Facebook. “Dopo sette anni di fuoco amico“, si legge, “penso si debba prendere atto che i nostri valori, le nostre idee, i nostri sogni non possono essere tutti i giorni oggetto di litigi interni”. E ha continuato: “Adesso si tratta di costruire una casa giovane, innovativa, femminista, dove si lancino idee e proposte per l’Italia e per la nostra Europa. C’è uno spazio enorme per una politica diversa. Per una politica viva, fatta di passioni e di partecipazione. Questo spazio attende solo il nostro impegno”.

Il Partito democratico, ha dichiarato sempre a Repubblica, “nasce come grande intuizione di un partito all’americana capace di riconoscersi in un leader carismatico e fondato sulle primarie”. Ma, riferendosi alla sua esperienza, ha puntualizzato: “Chi ha tentato di interpretare questo ruolo è stato sconfitto dal fuoco amico. Oggi il Pd è un insieme di correnti. E temo che non sarà in grado da solo di rispondere alle aggressioni di Salvini e alla difficile convivenza con i 5 Stelle”. E di fronte alle critiche di chi lo accusa di sfasciare il partito, dividendolo nel momento in cui era tornato al governo e trovato unità al suo interno, ha risposto: “Sono cinque anni che mi dite che rovino il Pd. Basta con questa tiritera sul passato. C’è un futuro ricco di difficoltà, ma bellissimo, là fuori. Lo andiamo a prendere? Lo costruiamo? O ci limitiamo ad aspettarlo rinchiusi nelle nostre correntine? Diciamo la verità: c’è una corrente culturale nella sinistra italiana per la quale io sono l’intruso”.

Ora che lo strappo è ormai consumato, ha continuato, Zingaretti “non avrà più l’alibi di dire che non controlla i gruppi Pd perché saranno ‘derenzizzati'”. E per il governo “probabilmente si allargherà la base del consenso parlamentare, l’ho detto anche a Conte”. Dunque, ha aggiunto, “l’operazione è un bene per tutti, come osservato da Goffredo Bettini. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Il ragionamento è più ampio e sarà nel Paese, non solo nei palazzi”. Proprio il segretario e governatore del Lazio è stato il primo a commentare le ragioni dell’addio, archiviandole in fretta: “Ci dispiace. Un errore. Ma ora pensiamo al futuro degli italiani, lavoro, ambiente, imprese, scuola, investimenti. Una nuova agenda e il bisogno di ricostruire una speranza con il buon governo e un nuovo Pd”.

E a proposito di governo, Renzi ha definito “un miracolo” il Conte 2: “Aver mandato a casa Salvini resterà nel mio curriculum come una delle cose di cui vado più fiero”, spiega augurandosi che le Politiche siano “nel 2023” e annunciando che sarà quella la “prima elezione cui ci presenteremo” con il simbolo. Fino a quel momento, solo liste civiche. Perché lo scopo è “fare la guerra a chi semina odio” e giura che passerà i prossimi anni “in contrapposizione frontale contro il populismo di Salvini” e dice di sperare che “anche il Pd si preoccupi di lui e non di Matteo Renzi” perché “non ci sono più alibi, non c’è più il parafulmine, ognuno cammini libero per la sua strada. In mezzo alla gente, non solo nei gruppi parlamentari. La guerra voglio farla a Salvini, non a Zingaretti”.

Al segretario però lancia un messaggio sul tema della discontinuità e del futuro, che dice essere uno dei fattori scatenanti della scissione (“Mi fa uscire la mancanza di una visione”). “Il primo gesto del nuovo Pd è stato mettere alle riforme un deputato che ha votato No al referendum e al lavoro un dirigente contrario al Jobs Act”, puntualizza riferendosi agli uomini scelti in segreteria da Zingaretti in quelle due posizioni, cioè Andrea Giorgis e il neo ministro del Mezzogiorno Giuseppe Provenzano.

Renzi, sempre nella lunga intervista a Repubblica, ha anche detto no alle “vendette” e ai “risentimenti”, ma ha sottolineato: “Mi hanno sempre trattato come un estraneo, come un abusivo, anche quando ho vinto le primarie. Ancora oggi c’è una corrente culturale che paragona i due Matteo mettendoli sullo stesso piano – ha dichiarato ancora – È il riflesso condizionato di quella sinistra che si autoproclama tale e che non accetta di essere guidata da uno che non provenga dalla Ditta. Del resto il contrappasso è semplice: io esco, nei prossimi mesi rientrano D’Alema, Bersani e Speranza. Va via un ex premier, ne torna un altro. Tutto si tiene”. Gelido anche il commento su Enrico Letta, che aveva detto di trovare incredibile l’addio per l’assenza di sottosegretari toscani: “Per rispetto della sua intelligenza non commento una simile idiozia”. Tuttavia, giura, i suoi ex colleghi di partito “non saranno mai nemici”.

Adesso però è tempo di ripartire “con lo zaino” e con il “sorriso” per una “strada meno battuta” parlando “con la gente non coi gruppi dirigenti”. “Lascio la comodità e mi riprendo la libertà. Ma c’è da costruire un nuovo modello di comunità politica, innovativo, non legato agli schemi ottocenteschi. Io ci proverò con tutto il mio entusiasmo e la mia determinazione. Saremo in tanti”, ha detto. Sulla nuova creatura, però, c’è ancora poco da raccontare: il nome resta top secret, ma “non sarà un partito tradizionale, sarà una casa” con “molte donne di livello alla guida”, ad iniziare dalla ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova che “sarà la capa delegazione nel governo”. E anche sui territori, ha concluso, “a coordinare saranno un uomo e una donna: la diarchia è fondamentale per incoraggiare la presenza femminile”.

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