“Mi si chiede, era veramente necessario assumermi le responsabilità politiche e penali, insomma la dichiarazione al procuratore di Milano?”. Esordisce così Cesare Battisti nella “lettera ai compagni” scritta nel carcere di Oristano, dove sconta l’ergastolo dopo l’arresto avvenuto a gennaio in Bolivia. Si riferisce, l’ex membro dei Proletari armati per il comunismo, alle ammissioni fatte tra il 23 e il 24 marzo dinanzi al responsabile dell’antiterrorismo milanese Alberto Nobili a proposito di quattro omicidi, tre ferimenti e una marea tra rapine e furti.

“Mi chiedo, quale necessità muove coloro che si pongono questa domanda? – scrive l’ex terrorista – Perché, se io sapessi esattamente cosa ci si aspettava da me, mi sarebbe allora più facile calarmi al loro posto e magari trovarci qualche buona ragione, che sicuramente non manca, per dubitare dell’opportunità o meno della mia decisione”. “Prendiamo solo questi ultimi quindici anni – prosegue Battisti – Sono stati un inferno continuo, tra anni di carcere, arresti rocamboleschi, enorme dispendio di energia personale e di forze solidali, in una persecuzione spietata, senza riserve e mai vista prima”.

“Come spiegare – prosegue l’ex Pac – che alcuni compagni pretendano da me esattamente quello che da me si aspettano l’opinione pubblica, leggi, istituzioni?”. Cioè, è il pensiero di Battisti, la rivendicazione dei quattro delitti per i quali è stato condannato: quello del maresciallo di Polizia Penitenziaria Antonio Santoro, da lui ucciso a Udine il 6 giugno 1978; quelli del gioielliere Pierluigi Torregiani e del commerciante Lino Sabbadin, militante del Msi, uccisi entrambi il 16 febbraio 1979 il primo a Milano e il secondo a Mestre; e quello dell’agente della Digos Andrea Campagna, freddato a colpi di pistola a Milano il 19 aprile 1978. In quei due giorni Battisti si assunse anche la responsabilità della gambizzazione di Giorgio Rossanigo, un medico del carcere di Novara, Diego Fava, medico dell’Alfa Romeo, e Antonio Nigro, guardia nel carcere di Verona.

“In fondo, chi avrei realmente danneggiato assumendo le mie responsabilità relative a un processo definitivo, archiviato, demonizzato? – scrive ancora Battisti – Non avrei dovuto dire del fallimento della lotta armata? E perché no? Giacché l’avevo sonoramente dichiarato nel 1981 e ripetuto. C’è qualcuno oggi che può onestamente dire che la lotta armata era da fare, che ne sia valsa la pena? (…). Ho preso questa decisione perché se non smitizzavo il mostro, se non dicevo che sono appena umano, allora sarebbe stato meglio se mi avessero scaraventato subito giù dall’aereo di Stato”.

“La domanda da porre sarebbe più concretamente questa: valeva la pena? – conclude l’ex terrorista – Sì, indubbiamente (…), perché, nonostante il massacro, ho ancora voglia di avere un cervello tutto mio, una sedia e un tavolo per scrivere a voi, alla famiglia e a tutti quelli che ancora vogliono leggere”.

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