Evocare Cesare Lombroso può apparire fuori luogo e indelicato per celebrare la grandezza di Peter Lindbergh, il celebre fotografo mancato a 74 anni. Provo a chiarire: in qualche misura tutti i fotografi sono un po’ “lombrosiani, nel senso che a furia di scrutare, scandagliare e fotografare volti umani, si allenano a trovare nella fisiognomica qualcosa di “parlante”, qualcosa di rivelatore. Nulla della volontà di Lombroso di classificare, schedare, condannare, piuttosto un istinto a cogliere aspetti della personalità.

Capita anche a me e, avendo potuto avvicinare molti grandi fotografi, ogni volta ho notato – non appaia ovvio e banale – che il loro sguardo, i loro occhi, sono sempre, e dico sempre, incredibilmente profondi, penetranti, mobili, assetati, e anche febbrilmente inquietanti nella loro voracità. Ricordo quelli di Henri Cartier-Bresson, quelli di Sebastião Salgado, quelli di James Nachtwey, quelli di tanti altri e poi quelli di Peter Lindbergh: chiari di un colore indefinibile, e hanno visto il futuro.

Essere in anticipo, essere avanti, spesso crea salite in termini professionali: più semplice allinearsi, seguire il vento e le tendenze senza rischiare troppo. Ma come si fa a dirlo a gente come Lindbergh, quando la prudenza e il già visto non possono appartenere agli spiriti liberi, ai maestri e agli apripista? La carriera di Lindbergh è lunga ma soprattutto intensa, e non stiamo qui a ripercorrerla perché già ovunque la trovate e perché sarebbe comunque parziale.

Partiamo piuttosto dalla fine: la copertina di settembre 2019, la sua ultima ora in edicola, dell’edizione inglese di Vogue, realizzata con 15 ritratti di Lindbergh ad altrettante donne proposte come coloro che stanno cambiando il mondo. Poi corriamo rapidamente all’indietro fino al 1990, vedendoci scorrere davanti tre calendari Pirelli, ritratti a tutte le top model, ai maggiori protagonisti del cinema e della musica, un gran numero di lavori per Vogue e molto, molto, molto altro.

Ma in quel 1990, precisamente nel numero di gennaio, ancora Vogue nell’edizione inglese pubblica una sua fotografia che diventa epocale e che determina un prima e un dopo. È una rivoluzione copernicana, una svolta, un ribaltamento che segnerà la moda, il costume e anche una nuova consapevolezza femminile. Appena usciti dagli anni 80 – il decennio del glamour, dei nuovi stilisti, della moda come obbligo sociale – su quella copertina Lindbergh fotografa, in un sobrio bianconero, le top model del momento: Linda Evangelista, Cindy Crawford, Naomi Campbell, Christy Turlington e Tatjana Patitz. Ma sono al naturale, cinque ragazze e amiche che si divertono senza pose assassine o ruffiane, quasi del tutto struccate.

Lindbergh non amava l’artificio, la finzione sociale ed estetica, le maschere, e sosteneva che compito di un fotografo di oggi fosse “liberare il mondo dalla tirannia della giovinezza e della perfezione”. Less is more: il valore aggiunto è dato dal togliere, dall’alleggerire, dal tornare all’essenza e dunque a un’intensa naturalezza. Poco male – anzi! – se si vede una ruga, i capelli sono spettinati e il trucco è assente. E l’assenza di trucco sul volto di una modella andava di pari passo con la diffidenza di Lindbergh verso l’uso smodato del trucco fotografico, inteso come fotoritocco in postproduzione.

Se oggi ci guardiamo intorno, però, tutto sembra indicare l’apparire come unica chiave del mondo: si muore per un selfie, si corre ai casting dei talent, si cerca spasmodicamente un like e bimbetti di cinque anni dichiarano di voler fare, da grandi, gli youtuber. Dunque sembrerebbe smarrita quella lezione di genuinità fatta di jeans, magliette bianche, scarpe da tennis e visi al naturale con altrettanto naturali espressioni e sorrisi.

Sono ottimista: molti segnali indicano che sempre, dopo baldorie, euforie e ubriacature varie, là si torna: alle cose autentiche, vere e rassicuranti. Questione di tempo. D’altronde, abbiamo detto, gli occhi di Peter Lindbergh vedevano il futuro.

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