La madre è dipendente della Farnesina e lavora in California, il figlio vive in Italia, a Firenze. I due si vedono solo per le ferie. A dividerli è l’oceano della diplomazia dei timbri. D.Z. lavora per il governo italiano al Consolato di Los Angeles dal 2014, il figlio all’epoca aveva 22 anni e in Italia è disoccupato e senza altri parenti che possano provvedere al suo sostentamento. Fino a gennaio 2019 erano insieme negli States. Le autorità americane però hanno negato il rinnovo del visto sulla base di una norma più restrittiva intervenuta nel 2016 in ordine ai requisiti di età e di famiglia (figli non sposati conviventi e a carico ), mentre il ministero degli Esteri si è rifiutato di concedere un passaporto di servizio al figlio della dipendente, che pure appartiene al nucleo familiare della madre. Così, nonostante siano stati trasferiti negli Usa con decreto del Presidente della Repubblica, i due si vedono solo nei 28 giorni di ferie estive dell’impiegata. Un figlio per le vacanze, insomma. E così sarà fino al 2022, cioé quando scadrà l’incarico di servizio negli Usa.
La surreale vicenda otto mesi fa è arrivata sul tavolo del governo con una lettera aperta al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ancora senza risposta. Era approdata anche in Parlamento, grazie a un’interrogazione di Manlio Di Stefano – all’epoca solo un deputato del M5S all’opposizione – ma non ha trovato soluzione neppure dopo la sua nomina a sottosegretario agli Esteri. E a detta della signora, da allora “è calato il totale disinteresse”, nonostante la lettera sia stata poi trasmessa da Bonafede a Di Stefano per competenza.
Il caso si trascina per un rimpallo di responsabilità tra autorità italiane e statunitensi con al centro i requisiti per il passaporto di servizio che viene concesso ai figli degli impiegati di ruolo e dei diplomatici, non automaticamente ai cosiddetti “contrattisti”, cioè l’esercito di circa 2mila impiegati con contratti locali presso le nostre sedi estere che vivono e lavorano con retribuzioni e diritti meno tutelanti rispetto alla platea di dipendenti della Farnesina. Un ambasciatore, per fare un paragone, per ogni figlio non solo riceve il visto ma anche il 5% in più della retribuzione vale a dire da 15mila a 22mila euro l’anno. Non i dipendenti di serie B, come l’assistente amministrativa a Los Angeles e il figlio 22enne non ancora autonomo economicamente. Loro non hanno né l’uno né l’altro. E restano ostaggi di una faida di burocrazie e contenziosi irrisolti tra l’Ambasciata italiana a Washington e il Dipartimento di Stato americano.
In particolare l’Office of Foreign Missions richiedeva per il ragazzo il passaporto di servizio come riconoscimento dell’appartenenza al governo d’invio e quindi come unico strumento possibile per consentirgli di restare sul territorio americano insieme alla famiglia. Improcedibile, del resto, è il visto turistico. Il visto B1/B2 è infatti riservato a chi visita gli Usa a termine e non consente di rimanere continuativamente presso il nucleo familiare per la durata dell’incarico lavorativo (nel caso della signora, settembre 2022). Il Maeci prospettava una soluzione alternativa nell’iscrizione di madre e figlio alla mutua del personale che presta servizio per la Farnesina. Ma gli americani rispondono picche, giacché le quote che sovvenzionano l’associazione mutualistica arrivano dai dipendenti e non dal governo. L’Italia deve rilasciare il passaporto di servizio, punto.
Così a gennaio 2019 l’ambasciata di Washington ha dato al ragazzo 30 giorni di tempo per lasciare il Paese. “Adesso – racconta il figlio dell’impiegata – posso vedere mia madre solo nei 28 giorni di ferie l’anno che ha come impiegata a contratto, quindi non ci vediamo più. I figli degli impiegati di ruolo sono stati tutelati dalla Farnesina e non hanno il mio stesso problema è una vera ingiustizia. È veramente una cosa disumana”.
Riceviamo e pubblichiamo

Caro Direttore,
Le scrivo in riferimento all’articolo pubblicato sulla vostra edizione online, intitolato “Farnesina, impiegata a Los Angeles e figlio a Firenze. A separarli la diplomazia dei timbri”.
L’articolo mi chiama in causa con un velato intento di far emergere un mio disinteresse verso il caso, nonostante me ne fossi occupato in veste di semplice deputato nella scorsa legislatura.
Desidero assicurarvi, invece, che il mio personale e fattivo interessamento, insieme ai competenti uffici della Farnesina, è stato pieno fin da subito. Purtroppo però il caso non è di facile soluzione mancando i requisiti previsti dalla legge per il rilascio del passaporto di servizio. Ciò è stato confermato dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3771/2019 del 5.6.2019, che ha definitivamente riconosciuto la piena legittimità dell’interpretazione e dell’operato del Ministero degli Affari Esteri nel caso specifico. Non una nostra scelta quindi, ma un obbligo giuridico.
Non volendoci confinare negli steccati imposti dal diritto in un caso così delicato, e volendo trovare una soluzione che consentisse all’interessato di stare negli USA con la madre, era stata comunque tentata dalla nostra Ambasciata a Washington la richiesta di rinnovo del visto alle autorità locali.
Tuttavia, in data 17 dicembre 2018, le autorità statunitensi comunicavano il diniego del visto, motivandolo con la considerazione che gli elementi forniti dagli interessati non fossero sufficienti a far ritenere il ragazzo come appartenente al nucleo familiare e a carico.
L’esito negativo della richiesta di rilascio di visto veniva quindi comunicato il 21 dicembre direttamente alla dipendente, alla quale veniva anche fatto presente per le vie brevi, come segnalato dalle autorità statunitensi, che il figlio avrebbe potuto presentare domanda per un tipo di visto differente o lasciare il territorio USA entro il 16 gennaio 2019.
Ciononostante, non risulta sia mai stata presentata, per quanto a conoscenza mia e dell’Amministrazione, domanda per un visto differente.
Le scrivo tutto ciò, caro direttore, con puro spirito collaborativo e col fine di dare ai suoi lettori tutti gli elementi oggettivi di questa storia che, ci addolora, ma non dipende in alcun modo né da me né dalla Farnesina.
Resto a disposizione.

Manlio Di Stefano

Risponde l’autore

Gentile sottosegretario,
il suo intervento all’epoca in cui era deputato è stato ampiamente citato e la sua sensibilità al caso non è in discussione; proprio per questo i protagonisti, una volta nominato sottosegretario, nutrivano forti aspettative rispetto al ricongiungimento. Purtroppo, come lei ben sottolinea, il loro è un caso limite di norme generali che non tutelano situazioni specifiche ed urgenti, neppure – scrive la dipendente della Farnesina – “quando è a repentaglio l’unità morale, personale ed economica della nostra famiglia, dopo anni di onorato servizio allo Stato italiano in ogni incarico a me conferito”.
T.M.
Articolo Precedente

Open Arms, l’appello di Richard Gere a Sky Tg24: “Sulla nave dell’Ong ci sono degli angeli”

next
Articolo Successivo

Viminale, il giudice: “Licenziamento discriminatorio per la mediatrice peruviana che ha scritto la lettera a Salvini”

next