Tra le decine e decine di titoli citati dalle varie rievocazioni della straordinaria carriera di Piero Tosi, scomparso nei giorni scorsi all’età di 92 anni, ce n’è uno anomalo e sorprendente. È quello del Giornalino di Gian Burrasca. Lo citano alcuni articoli, non tutti, e solo per un motivo marginale: la collaborazione con l’autrice della serie televisiva, Lina Wertmüller che, quando divenne direttrice del Centro sperimentale di cinematografia, chiamò Tosi tra i docenti per un incarico che il grande costumista svolse con grande passione per quasi trent’anni.

Se non fosse per questo legame con una regista prossima a quell’Oscar che Tosi vinse senza mai ritirare, forse della sua collaborazione al Giornalino non si parlerebbe neppure. E sarebbe un grave errore, da cui non sarei esente, visto che – lo confesso – avevo del tutto dimenticato la presenza di Piero Tosi nel cast di quello stano prodotto televisivo. Sono peraltro in buona compagnia: nessuna delle storie della televisione, parlando del Giornalino, cita il lavoro sui costumi di Tosi e non lo fa neppure la Wertmüller nella sua autobiografia.

Invece qualche considerazione questo suo lavoro la meriterebbe. Certo ci sono opere più importanti rimaste nella storia e nella nostra memoria. Chi potrà mai dimenticare l’abito bianco di Angelica nel gran ballo del Gattopardo, le vesti primitive della Medea pasoliniana, le bretelle sul seno nudo di Charlotte Rampling nel Portiere di notte? Eppure non è da trascurare quello che Tosi fece con Lina Wertmüller per un’operazione della Rai che non aveva certo il prestigio di un film di Luchino Visconti, di Pier Paolo Pasolini e neppure di Marco Ferreri con cui stava lavorando in quel 1964 per La donna scimmia. Anzi, sembrava proprio una robetta da nulla, visto che l’intenzione era quella di mandarla in onda nella fascia dei programmi per ragazzi.

Invece quel Giornalino occupò la prima serata del sabato, quella dei grandi varietà, fece ascolti strepitosi, divenne con la sua “pappa col pomodoro” un fenomeno popolare e soprattutto si affermò come uno dei rari esempi di musical italiano. Il lavoro di Tosi nell’occasione non fu certo secondario né semplice. Si trattava questa volta di creare un’ambientazione non sontuosa, originale, raffinata come fece tante volte nel cinema, ma di portare sul piccolo schermo in bianco e nero l’universo chiuso, grigio, dimesso e un po’ ridicolo della buona famiglia italiana del primo Novecento.

Non c’era una Claudia Cardinale da far risplendere, ma una Rita Pavone da vestire da maschietto un po’ monello. La trasformazione riuscì pienamente e quella Pavone-Gian Burrasca resta nella storia della cultura nazionale un’icona non meno celebre della Cardinale-Angelica che l’anno prima aveva incantato Cannes.

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