Chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari (opg), è scoppiato un mezzo pasticcio. I casi che prima finivano in un unico contenitore indifferenziato, oggi vengono a galla in tutta la loro complessità creando talvolta dei cortocircuiti. Come quello dei malati mentali autori di reato parcheggiati in carcere in attesa di un posto libero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (le rems, strutture di carattere sanitario che hanno sostituito l’opg, struttura di tipo detentivo). Oppure di quelli che anziché essere presi in carico dai servizi sul territorio vengono impropriamente spediti nelle rems, che così si ingolfano, da magistrati che con un po’ troppa disinvoltura ne riconoscono la “pericolosità sociale”, requisito necessario per entrarci. O, ancora, il caso recentissimo dei detenuti senza vizio di mente, quindi “sani”, che accusano un disadattamento al carcere e vengono indirizzati presso i servizi psichiatrici senza possibilità di trattamento.

Una situazione che sta mettendo in seria difficoltà i medici. “Sono falsi pazienti psichiatrici con un disturbo antisociale di personalità che però non va confuso con una malattia e non va curato con i farmaci – spiega Enrico Zanalda, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Asl Torino 3 e presidente della Società italiana di psichiatria (Sip), che ha lanciato l’allarme -. Trasgrediscono le regole, non rispettano l’autorità, aggrediscono il personale e sono elemento di disturbo per gli altri pazienti. Di solito hanno un uso problematico di sostanze e per procurarsi droga o alcol appena possono scappano dalla comunità”. Una conseguenza della sentenza n. 99 depositata dalla Corte costituzionale il 19 aprile 2019. In cui i giudici hanno stabilito che se durante la carcerazione si manifesta una malattia psichica, si potrà disporre che il detenuto venga curato fuori dal carcere, applicando la misura alternativa della detenzione domiciliare o in luogo di cura, così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico.

“Questi detenuti dicono di stare male in carcere, teatralizzano i sintomi dell’insofferenza, ma non sono mai stati trattati prima della detenzione in ambito specialistico e non vogliono assolutamente collaborare con i sanitari – continua Zanalda -. Da aprile, in seguito a quella sentenza, nel mio dipartimento sono arrivati già tre casi del genere, due sociopatici e uno con disturbo dell’adattamento”. Secondo la Sip, se permane questo trend (conseguente alla decisione dei giudici costituzionali) ogni anno ci saranno oltre 400 detenuti “mentalmente sanissimi” trasferiti nei dipartimenti di salute mentale senza averne alcuna indicazione clinica. “Un fenomeno che interessa il cinque per cento di tutti gli autori di reato inviati alla psichiatria e che sottrae posti a chi ne ha davvero bisogno”, dice il medico. Giudicando “inaccettabili e insostenibili a livello pratico” queste ordinanze “che delegano alla psichiatria un ruolo cautelativo custodiale perso da tempo. Non siamo agenti penitenziari, il nostro compito – lo ribadisce – è curare, non vigilare e custodire”.

La soluzione? Zanalda non ha dubbi: “Per questi soggetti c’è bisogno di un percorso psicoeducativo all’interno del carcere o nelle case di lavoro. Guai a psichiatrizzare i loro comportamenti, sarebbe un alibi per uscire di prigione”. Un nervo scoperto del sistema carcerario è proprio la scarsità di personale sociosanitario. Nell’ultimo rapporto di Antigone, relativo al 2018, si legge che secondo i dati del Dap il rapporto medio tra detenuti ed educatori si attesta a 65,5. Mentre stando all’Osservatorio di Antigone, negli istituti visitati dall’associazione il rapporto sale a 78. Ma ci sono realtà dove le carenze sono peggiori, “ad esempio la Casa Circondariale di Taranto Carmelo Magli ha 1 educatore ogni 205 detenuti, quella di Rieti 1 educatore ogni 182 detenuti e quella di Tolmezzo 1 educatore ogni 179 detenuti”. La funzione rieducativa del carcere insomma è compromessa. Questo è il problema e da qui bisogna partire. Ne è convinto Giuseppe Nese, coordinatore per il superamento degli opg della Regione Campania e membro del tavolo di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria: “Dobbiamo chiederci perché il carcere ha peggiorato lo stato mentale di quella persona, se è in grado di rieducare, se ha risorse adeguate. È necessario intervenire sulla fonte del disagio, altrimenti il problema non si risolve, si sposta in altri contenitori e basta. Il sistema carcerario così com’è oggi va rivisto, i suicidi continuano a crescere, va potenziato il numero di educatori e psicologi”.

I detenuti “sani” ma psichiatrizzati sono la punta di un iceberg di una stortura più ampia, esplosa all’indomani di una sentenza della Cassazione del 2005, secondo cui alcune forme di disturbo di personalità possono comportare l’infermità di mente. “Succede che viene applicata in maniera estensiva, anche a disturbi che non alterano il rapporto con la realtà, come il narcisismo, il disturbo dipendente o antisociale. Condizioni cliniche che non sono di pertinenza dei dipartimenti della salute mentale – osserva Zanalda -. Questo ha generato falsi infermi, per lo più sociopatici, a cui non dovrebbe essere applicato nessun vizio di mente, dichiarati da periti senza esperienza nei servizi di salute mentale, perciò non idonei a valutare queste situazioni”. Il risultato per gli psichiatri clinici è paradossale: “Rems strapiene di persone con vizio di mente fittizio, non imputabili dunque, che dovrebbero restare in carcere o essere inviate in altri luoghi di recupero”. Alessandro Jaretti Sodano, direttore della Rems di San Maurizio Canavese (Torino), conferma che su venti ospiti dieci non hanno i requisiti per stare lì. “Non è possibile garantire la gestione di persone violente, non collaboranti, il cui comportamento deviante non deriva da una condizione psicopatologica ma dalla volontà di delinquere o di non sottostare ad alcuna regola di convivenza in comunità – dichiara il direttore -. I posti letto disponibili nelle rems sono limitati ed è necessario un loro utilizzo mirato dando priorità all’ingresso ai soggetti che possono giovarsi dei percorsi terapeutico-riabilitativi. In questo modo – conclude – possiamo rispettare la legge 81/2014”. Quella che ha portato al superamento degli opg e alla nascita delle rems.

L’era post-opg soffre ancora di un ritardo normativo. La riforma dell’ordinamento penitenziario (dlgs 123/2018) “non solo non ha potenziato l’assistenza psichiatrica come avevamo proposto – sottolinea Marco Pelissero, professore di diritto penale all’Università di Torino che ha presieduto la commissione per la riforma della sanità penitenziaria al ministero della Giustizia -, ma ha addirittura tolto qualsiasi riferimento ad essa facendoci fare un passo indietro. Avevamo previsto anche l’equiparazione del disagio psichico a quello fisico ai fini del rinvio della pena e la possibilità di misure alternative, come la detenzione domiciliare o in altro luogo idoneo, oltre all’affidamento in prova in comunità terapeutica”. Proposte inevase. “Poi però è arrivata la sentenza 99/2019 della Corte costituzionale che – ammette Pelissero – ha sanato un vuoto”. Mentre dal punto di vista degli psichiatri l’effetto è meno idilliaco, almeno finché non verranno trovate alternative che non aggravino i servizi di salute mentale. Servirebbe infine mettere mano a tutti articoli del codice penale che fanno ancora riferimento agli opg. E all’articolo 203, che tiene in vita il concetto di “pericolosità sociale” di una persona, che risale addirittura al codice Rocco del 1930 e che il progresso scientifico ha superato con il più umano “bisogno di cura”.

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