Le lobby canadesi dell’agribusiness dichiarano guerra alle misure italiane sull’etichettatura dell’origine del grano, causa – a loro dire – della drastica riduzione delle importazioni di grano canadese nel nostro Paese che, fino allo scorso anno, era la principale materia prima della pasta made in Italy. Ma è davvero così? A due anni dalla firma degli ex ministri dello Sviluppo economico e delle Politiche agricole Calenda e Martina sui decreti interministeriali per introdurre in via sperimentale, per due anni, l’obbligo di indicazione dell’origine, è tempo di bilanci. Ancora di più, perché quei decreti perderanno efficacia, a partire dalla data di applicazione del nuovo regolamento europeo, attesa per il 1 aprile 2020. Quanto hanno giovato in termini di trasparenza le nuove regole sull’etichettatura? Ilfattoquotidiano.it lo ha chiesto a Dario Dongo, avvocato esperto di diritto alimentare e fondatore di Great Italian Food Trade, il portale di informazione indipendente sull’alimentare. “Le misure sull’origine del grano sono state sì un passo in avanti, dato che non c’era alcuna norma a tutelare il consumatore – spiega – ma in termini di trasparenza sono una foglia di fico e dovrebbe preoccupare il fatto che non andrà meglio con il regolamento europeo 775/2018” che entrerà in vigore tra meno di un anno.

LE LOBBY CANADESI ACCUSANO L’ITALIA – L’Italia, nel frattempo, è finita nel mirino della CropLife (l’associazione internazionale delle aziende agrochimiche) per le misure di etichettatura di origine del grano, la diffidenza verso il glifosato e il divieto di Ogm. In un dossier scritto insieme alla Camera di Commercio canadese, l’associazione indica gli ostacoli al libero commercio che le multinazionali del settore vogliono rimuovere attraverso il comitato per la cooperazione regolatoria istituito dal Ceta, il trattato internazionale che sancisce un accordo commerciale di libero scambio tra Canada e Unione europea. Nove le raccomandazioni elencate nel documento, che al nostro Paese dedica un’intera pagina.

CALA L’EXPORT CANADESE – Le misure adottate dall’Italia, considerate “barriere ingiustificate”, contrasterebbero con le regole del libero commercio, andando ad incidere in maniera “disastrosa” sull’export canadese, crollato dai 557 milioni di dollari canadesi del 2014 ai 93 milioni del 2018. In sintesi, per la Camera di Commercio canadese l’ex ministro Martina avrebbe introdotto le misure in questione “per chiare ragioni protezionistiche” e non “per difendere gli interessi dei consumatori”. Ma se da un lato fa riflettere che il Canada abbia l’intenzione di utilizzare il Ceta per obbligare l’Italia a fare dietrofront, dall’altro quest’attacco impone una riflessione sugli effetti che finora hanno avuto i decreti degli ex ministri italiani. “Questa mossa delle lobby canadesi mi sembra una presa in giro – commenta Dongo – perché il calo dell’export del grano canadese nel nostro Paese è dovuto più che altro al fatto che i consumatori italiani hanno assunto comportamenti più responsabili nelle scelte d’acquisto. In termini di trasparenza, le misure introdotte in via sperimentale non hanno portato grossi cambiamenti”.

I LIMITI DELLE MISURE SULL’ETICHETTATURA – Il decreto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 17 agosto 2017, in particolare, prevede che le confezioni di pasta secca prodotte in Italia debbano obbligatoriamente indicare in etichetta il Paese di coltivazione del grano e il Paese in cui il grano è stato macinato. Ma se queste fasi avvengono nel territorio di più Paesi possono essere utilizzate, a seconda della provenienza, le diciture “Paesi UE, Paesi NON UE, Paesi UE E NON UE”. “In pratica tutto il pianeta” commenta a ilfattoquotidiano.it Dongo, secondo cui non c’è alcun dubbio “sulla poca utilità del decreto in questione se l’obiettivo era quello di fornire maggiori informazioni al consumatore sulla provenienza del frumento”. Se il grano duro è coltivato almeno per il 50% in un solo Paese, ad esempio l’Italia, si potrà usare la dicitura: “Italia e altri Paesi UE e/o non UE”. Ma da subito c’è stato chi ha sostenuto, come la deputata M5S Chiara Gagnarli, vice-presidente della commissione Agricoltura alla Camera che l’etichetta rischiava “di essere assolutamente ingannevole, perché nessuna verifica può garantire che il grano presente nel pacco di pasta che compriamo sia italiano al 50% o all’1%”. Non solo. Il risultato è che solo alcune aziende indicano in modo preciso le nazioni di provenienza del grano. A tutto ciò si è aggiunto, nel frattempo, un altro problema. Riguarda il decreto legislativo 145 del 2017, che ha reintrodotto l’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione sulle etichette degli alimenti prodotti o confezionati e venduti in Italia, ma anche i tre decreti ministeriali recanti prescrizione obbligatoria d’origine della materia prima su pasta di frumento, riso e conserve di pomodoro.

L’EFFICACIA DEL DECRETO E IL RISCHIO DI INFRAZIONE – I decreti, pubblicati insieme a quello sul latte (nei prodotti lattiero-caseari) nel 2017 dal governo Gentiloni, avrebbero dovuto perdere efficacia dall’entrata in vigore del regolamento Ue sull’origine dell’ingrediente primario, vale a dire dal 1 giugno 2018. Solo il 9 giugno dello scorso anno, però, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale un decreto firmato il 7 maggio dall’ex premier Paolo Gentiloni, facente funzioni di ministro dell’agricoltura, e Carlo Calenda, con il quale è stata prorogata l’efficacia di questo e degli altri decreti. Per tutti la decadenza è stata spostata non più a partire dall’entrata in vigore del regolamento europeo, ma dal giorno prima della sua applicazione, fissata per il 1 aprile 2020. “Ma questa norma – denuncia da tempo l’avvocato – non ha avuto il via libera dalla Commissione Europea e per la sua adozione l’Italia rischia di subire una procedura di infrazione”. Di più: “Dei quattro decreti sulle etichette solo quello relativo all’origine del latte – aggiunge – è stato notificato ufficialmente alla Commissione europea, la quale ne ha confermato la pur provvisoria applicabilità”.

IL REGOLAMENTO EUROPEO – Ma cosa accadrà con il regolamento europeo? “Intanto – spiega l’esperto – il regolamento definisce in termini generici le modalità di indicazione dell’origine o provenienza dell’ingrediente primario (>50%)”. Informazione che è obbligatorio inserire in etichetta “solo quando l’origine o provenienza dell’ingrediente primario sia diversa dall’origine del prodotto, ossia il Paese dove ha avuto luogo la sua ultima trasformazione sostanziale”. Dunque occorre specificarlo nel caso alla pubblicità o a una etichetta che indichi “Made in Italy” non corrisponda un ingrediente primario che abbia origine nel nostro Paese. Secondo Dongo “l’Italian sounding avrà campo libero, grazie a una serie di deroghe inserite dalla Commissione europea”. L’impiego di un marchio commerciale che possa anche implicitamente suggerire l’origine di un alimento, da un punto di vista lessicale come accade con l’Italian sounding o grafico (utilizzando la bandiera italiana) dovrebbe fare scattare l’obbligo di indicare la diversa provenienza dell’ingrediente primario. Tuttavia, sono stati esclusi da tale regola i marchi registrati. “Sarà sufficiente inserire i suggerimenti geografici all’interno di un marchio registrato, o in una IGP (Indicazione Geografica Protetta) – spiega l’avvocato – per beneficiare di una deroga. E nascondere che l’ingrediente primario proviene da tutt’altra parte”.

Articolo Precedente

Ue, Salvini: “Procedura d’infrazione sarebbe attacco politico basato su antipatia, non su numeri”

next
Articolo Successivo

Autostrade: “Parere Mit diffuso in modo pilotato. Revoca obbliga a indennizzo”

next