È una sentenza destinata a restare scolpita nella pietra, quella di ieri della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Viola vs Italia. Non solo perché afferma che una pena perpetua senza possibilità di revisione è contraria al senso di umanità. Ma anche e soprattutto perché sostiene che nessun automatismo può da solo costituire una modalità di revisione sufficiente.

In Italia esistono due tipi di ergastolo: quello ordinario, rivedibile dopo 26 anni con la liberazione condizionale e aperto ai benefici che la legge garantisce al detenuto che tenga in carcere una buona condotta, e quello ostativo, comminabile per alcune tipologie di reato e destinato a durare quanto la vita intera tranne che per una circostanza. Quest’ultima consiste nella collaborazione del condannato con la giustizia. O collabori o non collabori, tertium non datur. Se non collabori, ovvero se non fai i nomi dei complici di crimine di un tempo, o dimostri che la tua collaborazione è impossibile o inesigibile oppure sei automaticamente escluso anche da un potenziale ritorno in libertà. L’impossibilità o inesigibilità segue alcuni parametri che ad esempio nel caso del ricorrente non si soddisfano.

La Corte di Strasburgo ha affermato che una pena così regolamentata è contraria al senso di umanità. Qualsiasi pena deve tendere a reintegrare il condannato nella società. E deve dunque lasciare aperta una prospettiva di reintegrazione. Non sempre è tale quella che vede nella collaborazione con i giudici il solo indice della volontà di affrancamento dalla vita criminale. Il ricorrente sosteneva infatti di non voler fare i nomi dei complici del passato non perché ancora a loro legato bensì per paura di ritorsioni su lui stesso e sulla sua famiglia. Ma dal 1991 a oggi, lungo tutti gli anni trascorsi ininterrottamente in stato di detenzione, non aveva mai ricevuto neanche un provvedimento disciplinare. Un segno quantomeno da valutare per comprendere se la nuova adesione alle regole sia da intendersi come un serio ravvedimento.

Inutile dire che la Corte non ha minimamente suggerito che il ricorrente debba tornare in libertà né ha fatto considerazioni sul reato commesso, che assolutamente non le spettano. La sentenza è tecnicamente complessa e di non facile intuizione. Ma il punto centrale ribadito dalla Corte, un punto che si pone al cuore della stessa filosofia della pena, è che quest’ultima non debba mai contenere elementi di mera afflittività, incapaci di guardare al recupero sociale della persona. Il che non significa che necessariamente la pena sarà capace di recuperare l’ergastolano. Ci sono condanne che durano l’intera vita e continueranno a esserci. Ma ciò non può essere stabilito in anticipo, senza possibilità di modificare un futuro scolpito nella pietra.

La persona può sempre cambiare. Nessuno è inchiodato per sempre al momento della commissione del delitto, anche il più efferato. Abbiamo conosciuto ergastolani – si pensi a Carmelo Musumeci, che in carcere ha studiato fino a ottenere due lauree triennali e una specialistica e ha scritto libri apprezzati da tanti – che sono oggi persone completamente diverse da quelle che fecero ingresso in carcere. Persone che oggi sono tornate in libertà e offrono il loro contributo alla società. Persone nei cui confronti la pena è riuscita nella propria spinta responsabilizzante e risocializzante.

Queste sono vittorie della società intera. Sono vittorie dello Stato e dimostrano la sua forza. Solo uno Stato forte può permettersi di non essere mai meramente vendicativo. Non c’è lassismo in una pena capace di mettere sempre in conto il recupero della persona condannata. Non c’è lassismo in una pena capace di rispettare sempre la dignità della persona, chiunque essa sia. È questa una delle lezioni della sentenza Viola vs Italia.

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