Soldi che ci sono ma non vengono spesi. Liste d’attesa infinite e persone che dormono in strada a fronte di alloggi vuoti ed edifici storici lasciati a marcire. E un sistema di assegnazione delle case popolari complicato che in pochi riescono a comprendere fino in fondo. Per la prima volta dopo molto tempo, il dibattito pre elettorale si è concentrato sul tema dell’abitare. Ma occorre mettere dei punti fermi, specie in una situazione complessa come quella romana. Nella Capitale sono quasi 20.000 le famiglie che hanno bisogno di un tetto. Ci sono le 12.500 famiglie in lista d’attesa per una casa popolare; le circa 1.100 ospitate nei residence pagati a caro prezzo dal Comune di Roma; un altro migliaio di famiglie che dorme nelle roulotte messe a disposizione da Sant’Egidio in tutta Roma (la gran parte sono italiani); altre circa 1.000 famiglie che vivono nei campi rom anche da 20-25 anni; altre 2.000 (si stima) negli oltre 80 palazzi occupati in città. A queste vanno aggiunte le circa 2.000 persone che risiedono in via Modesta Valenti, una strada che non esiste, un indirizzo fittizio utilizzato da senzatetto o da coloro che abitano in alloggi di fortuna, temporanei. Per non parlare dei clochard, circa 14.000 senzatetto che non trovano posto negli appena 800 posti letto messi a disposizione dal Comune di Roma, contribuendo – oltre al lato umanitario, naturalmente – al pericoloso degrado di alcune zone della Capitale.

A ROMA LA GRADUATORIA E’ “SINGLE” – Una Capitale in emergenza abitativa, si direbbe. Ed è inconfutabile. Ma il grande problema è la differenza nella qualità della domanda e dell’offerta di alloggi, non nella quantità. A partire dalle case popolari. Secondo i dati elaborati dal blog ‘Osservatorio Casa Roma’ – e confermati da Ater – dalla graduatoria emerge che il 29% delle famiglie in lista è composto da single. Se a questi uniamo anche i nuclei da due persone, il totale arriva al 52%: ben 6.444 famiglie. I single dominano anche i piani alti della classifica: fra le prime 1.500 posizioni i nuclei da una persona sono 938, il 63% del totale, cui si somma un altro 17% di famiglie da due persone, per un totale dell’80%. A un ritmo (ancora troppo lento) di 500 assegnazioni l’anno, teoricamente entro il 2021 queste richieste dovrebbero essere esaurite. E invece non è così. Perché la graduatoria generale è formata da 4 sottoclassifiche a seconda del numero dei componenti, cui corrisponde una metratura specifica di appartamento. I nuclei da 1-2 persone hanno diritto ad alloggi fino a 45 metri quadri, 2-3 persone da 45 a 60 metri, 4 persone da 60 a 75 metri e con più di 5 persone oltre i 75 metri.

MA LE CASE SONO TROPPO GRANDI – Qui nasce il grande paradosso dell’edilizia residenziale romana: gli edifici risalgono agli anni 70-80 e sono concepiti per famiglie che oggi non esistono più. In totale, le case popolari di proprietà di Ater e Comune di Roma sotto i 45 mq sono “appena” 8.023 (l’11% del totale), mentre gli alloggi superiori ai 75 metri quadri sono ben 31.012 (il 41%). In generale, più si sale con la metratura, più aumenta il numero degli immobili. E sono anche quelle che si liberano prima, ovviamente. E’ evidente, dunque, come le famiglie straniere, che nonostante situazioni di precarietà economica fanno registrare un alto tasso di natalità, siano favorite nello “scavalcare” (termine improprio perché, come abbiamo visto, le graduatorie sono in realtà quattro) quelle italiane. A questo si aggiungono i criteri introdotti nel 2012 dal sindaco Gianni Alemanno, che per tentare di svuotare i residence e frenare l’emergenza abitativa introdusse 18 punti in più in graduatoria alle famiglie che “dimorino in centri di raccolta, dormitori pubblici o altre idonee strutture procurate a titolo provvisorio da organi, enti e associazioni di volontariato”, cui si aggiungevano 14 punti per chi avesse più di tre figli minorenni. Una normativa che ovviamente dava (e da’) speranza anche a chi risiede a Roma da oltre 20 anni e vive nelle baraccopoli comunali (come i cosiddetti campi rom).

CHE FINE HANNO FATTO I FONDI EX GESCAL? – Il sunto è che le case popolari attualmente in dotazione di Ater e Comune di Roma non vanno bene per la richiesta. Servirebbero altri alloggi. Ventimila, o forse anche meno, perché tutte queste persone in stato di indigenza costano care alla spesa pubblica degli enti locali. Sì, ma con quali soldi costruirli? Forse non tutti sanno che le regioni hanno a disposizione un tesoretto, depositato presso la Cassa Depositi e Prestiti, relativo ai cosiddetti ex fondi Gescal (Gestione case per i lavoratori) prelevati negli anni passati dalle buste paga dei lavoratori. Una specie di conto corrente, che le regioni possono prelevare e rimpinguare secondo necessità. Il Lazio ha a disposizione ben 194 milioni di euro – sufficienti per costruire edifici e coprire gran parte del fabbisogno – ma finora non si è mai trovato l’accordo con gli enti locali e le parti sociali per utilizzarli. Solo 40 milioni, di questi, verranno investiti – è l’annuncio del governatore Nicola Zingaretti – in parte per il frazionamento degli alloggi più grandi già esistenti, in parte per la costruzione di nuove case. Sugli altri 150 milioni c’è il silenzio più totale, fra chi vorrebbe che venissero impiegati nell’edilizia agevolata convenzionata e chi preferirebbe progetto di recupero diversi.

GLI EDIFICI INUTILIZZATI DI PROPRIETA’ PUBBLICA – Da anni i sindacati degli inquilini, oltre a spingere per la realizzazione di nuovi alloggi, caldeggiano il recupero di edifici di proprietà pubblica, in un momento storico in cui il mercato immobiliare capitolino è pressoché fermo. Secondo un’indagine del Comune di Roma, sarebbero 110 le strutture dismesse o sottoutilizzate che attendono programmi di rigenerazione urbana che tardano ad arrivare. “Fra le proposte che abbiamo consegnato alla Giunta Zingaretti – afferma il segretario nazionale dell’Unione Inquilini, Massimo Pasquini – c’è anche quella di portare avanti dei programmi di recupero e autorecupero da parte delle famiglie”. Fra le proposte, c’è anche la regolarizzazione di chi occupa le case popolari, “ammesso che vi siano i requisiti”. “Questo – dice ancora Pasquini – permetterebbe all’Ater di mettere un punto nella gestione del suo patrimonio e di ricominciare”.

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