Incassate le dimissioni e le lacrime di Theresa May, i Tory ripartono da un 30% nei sondaggi. Peccato per Boris Johnson & Co che la percentuale non sia la loro, ma dell’uomo che – senza un atto preciso della propria volontà – aveva trascinato David Cameron a indire il referendum sulla Brexit: il 30% è di Nigel Farage e del suo Brexit Party, dato da tutte le rilevazioni in testa alle preferenze dei britannici nelle elezioni europee. Il che, se il nuovo partito euroscettico dell’ex leader dell’Ukip dovesse confermare le previsioni della vigilia, porterà i successori della May, l’ex sindaco di Londra in testa, a spostare il Partito conservatore su posizioni ancora più radicali nella trattativa con Bruxelles.

Ogni paese ha il suo “Rieccolo“, il suo politico inaffondabile a dispetto delle tempeste. In Italia c’era Amintore Fanfani: ogni volta che sembrava stesse lì per spariva definitivamente, il segretario della Dc ricicciava e si sistemava su una nuova poltrona. Il Regno Unito ha Nigel Farage, che in quanto a galleggiamento dimostra un talento persino superiore a quello del collega italiano: lo ha fatto solo una volta, ma è stato capace di sopravvivere a un terremoto come la Brexit. Dopo il referendum del 23 giugno 2016 aveva dichiarato estinta la funzione dell’Ukip e lui stesso sembrava destinato all’oblio, ingoiato dai corridoi di Bruxelles e dai gorghi inesorabili della storia come l’uomo che aveva costretto David Cameron a rincorrerlo e a imbarcarsi nell’avventura della Brexit. Invece tre anni dopo è ancora lì: ad allargare il suo sorriso da iena sul cadavere politico della May e a dettare l’agenda di chi ne prenderà il posto alla guida dei Tory.

Da quasi un mese la maggior parte dei sondaggi vede il Brexit Party al 30%. L’ultima rilevazione pubblicata da Politico.eu dà al secondo posto il Labour al 25%, davanti ai LibDem redivivi al 14%. Solo quarto al 13% il Partito conservatore, che nella logorante trattativa con Bruxelles ha bruciato una premier, voti e credibilità. Johnson sarebbe l’unico dei sei principali leader Tory a tenere insieme il bacino di elettori che ha mantenuto i conservatori alla guida del paese alle elezioni del 2017: tutti gli altri, secondo il sondaggio, perderebbero terreno. L’ex ministro degli Esteri, inoltre, farebbe particolarmente bene tra gli elettori che dichiarano di aver scelto il partito di Farage: il 13% di loro voterebbe per lui, contribuendo a identificarlo come l’unico dei leader Tory in grado di arginare l’emorragia di voti verso il Brexit Party. D’altra parte perderebbe il 27% di chi al referendum ha votato per restare nell’Ue.

L’ex sindaco in bicicletta ha già scaldato i motori: “Un nuovo leader avrà l’opportunità di agire diversamente ed avrà lo slancio di un nuovo governo – ha detto dalla Svizzera poco dopo la drammatica conferenza stampa di Theresa May – noi lasceremo la Ue il 31 ottobre, con o senza un accordo“. “Porterò la Gran Bretagna fuori dalla Ue nel modo adeguato, e metterò fine alla questione della Brexit”, ha aggiunto, ma “il modo per ottenere un buon accordo è prepararsi al no deal“. Ovvero a un’uscita senza intesa con Bruxelles, il che avrebbe conseguenze imprevedibili sia per il Regno Unito che per l’Unione europea e alla quale buona parte del Parlamento di Westminster si è già detta contraria.

L’obiettivo ora è contrastare la narrativa usata da Farage per strappare elettori ai Tory: quello del “tradimento” della promessa di uscire entro i tempi convenuti dall’Unione europea. Per questo motivo l’unica cosa certa è che il vincitore (o la vincitrice) della corsa alla leadership del partito e a Downing Street non potrà non venire se non dal fronte euroscettico. Al massimo il successore della May potrà venire dalle schiere di quei pro Remain tiepidi che negli ultimi anni si sono riposizionati su slogan brexiteer.

Tra costoro c’è il ministro degli Esteri Jeremy Hunt, che in un ballottaggio finale con Johnson non avrebbe chance alcuna di fronte alla base degli iscritti, innamorata del pittoresco Boris. Ma che potrebbe farcela se il rivale fosse eliminato nelle votazioni preliminari tra i parlamentari. Lo stesso discorso vale per un altro veterano di governo, Sajid Javid, da un annetto promosso ministro dell’Interno, che dalla sua ha da giocare la carta di potersi presentare quale ipotetico primo leader Tory proveniente da una minoranza etnica (rivoluzione vera, anche se solo d’immagine, per il più paludato dei partiti britannici) essendo figlio d’un autista di bus immigrato dal Pakistan. Mentre labili appaiono le speranze di altri moderati riverniciati di grinta: dal ministro della Sanità, Damian Hancock, all’ex diplomatico Rory Stewart, emergente titolare della Cooperazione Internazionale.

Johnson deve guardarsi anche da brexiteer della prima ora come lui. Incluso il pragmatico Michael Gove, tessitore di trame e ora ministro dell’Ambiente, che dopo aver fatto coppia nella campagna referendaria già fu in grado di pugnalarlo alle spalle e scaricarlo nel 2016. O ancora Penny Mordaunt, rampante ministra della Difesa di fresca nomina, prima donna alla guida politica dei militari di Sua Maestà e veterana ella stessa delle forze armate. Ma soprattutto deve guardarsi da Andrea Leadsom, dimessasi in extremis dal governo May proprio per prepararsi alla scalata; e dall’azzimato Dominic Raab, ex ministro della Brexit: più giovane e forse persino più falco di lui.

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