La previsione sulla crescita 2019 inserita dal governo nel Def , +0,2% tenendo conto dell’effetto di manovra e decreti Crescita e Sblocca cantieri, è “verosimile“. Ma i rischi sono molto rilevanti, perché tutte le stime sono appese all’ipotesi che l’esecutivo gialloverde riesca a disinnescare le clausole di salvaguardia sull’Iva, una zavorra da oltre 23 miliardi sui conti del 2020, trovando coperture alternative per una cifra equivalente. Se la missione fallisse ci sarebbero effetti depressivi sui consumi e quindi sul pil. Ma senza gli aumenti Iva e senza risorse equivalenti da reperire con la spending review o la rimodulazione delle detrazioni fiscali il deficit lieviterebbe fino al 3,4% del pil. E’ quello che è emerso dalle audizioni dei rappresentanti di IstatBankitalia e Ufficio parlamentare di bilancio davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, impegnate nell’esame del Documento di economia e finanza.

L’Upb ha validato il quadro programmatico 2019-2022 perché “le previsioni macroeconomiche programmatiche del Mef e quelle del panel UPB (Cer, Prometeia e Ref) sono nel complesso coerenti” e “la dinamica del PIL reale (rispettivamente dello 0,2 per cento nel 2019 e dello 0,8 in tutti e tre gli anni successivi) risulta compresa nell’intervallo di variazione del panel e soltanto nel 2021 si pone al limite superiore”. Per il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo la stima di crescita dello 0,2% “appare verosimile“: “gli ultimi dati disponibili” mostrano che il recupero dell’attività industriale di inizio anno “influenza in modo rilevante il quadro macroeconomico del primo trimestre, per il quale è verosimile un miglioramento dei livelli complessivi dell’attività rispetto a quelli di fine 2018, con effetti positivi anche sulla performance media annua 2019”.

Con aumenti Iva consumi in calo di 0,2% – Anche il capo dipartimento Economia e statistica della Banca d’Italia, Eugenio Gaiotti, ha sottolineato che “il buon risultato della produzione industriale in febbraio suggerisce che la crescita del pil potrebbe essere ripresa nel primo trimestre” anche se “altri indicatori restano ancora deboli”. E “lo scenario programmatico incorpora l’ipotesi dell’introduzione delle clausole di salvaguardia a partire da gennaio 2020. La stima contenuta nel quadro appare compatibile con un scenario di non pieno passaggio dell’aumento dell’Iva sui prezzi”, perché “l’incremento dei prezzi porterebbe a un effetto depressivo sui consumi che, nel quadro delineato, potrebbe essere nell’ordine di 0,2 punti percentuali”.

“Coperture di notevole entità per raggiungere gli obiettivi” – Per via Nazionale, dunque, “lo scenario macroeconomico presentato nel Def tiene conto in modo realistico della congiuntura ed è complessivamente condivisibile“. Ma ci sono “rischi rilevanti, che possono provenire da un peggioramento del contesto globale e da un più accentuato deterioramento della fiducia delle imprese“. In più le prospettive di crescita dipendono anche “dall’evoluzione delle condizioni finanziarie e dal mantenimento della fiducia dei risparmiatori nel percorso di riequilibrio dei conti pubblici. Il raggiungimento degli obiettivi richiederà l’individuazione di coperture di notevole entità, nel caso si voglia evitare l’attivazione delle clausole di salvaguardia, aumentare la spesa per investimenti pubblici, avviare con un percorso di riforma del sistema tributario una graduale riduzione della pressione fiscale, rafforzare gli incentivi all’investimento e all’innovazione: queste misure, se non compensate da razionalizzazioni di altri programmi di spesa e da effettivi risultati nel contrasto all’evasione, condurrebbero ad aumenti del disavanzo non compatibili con l’avvio di un credibile percorso di riduzione duratura del peso del debito“.

“Senza clausole disavanzo al 3,4% del pil” – Ma soprattutto, gli obiettivi “scontano l’attivazione delle clausole di salvaguardia il cui gettito, a seguito della rimodulazione prevista dalla legge di bilancio per il 2019, ammonta all’1,3 per cento del Pil nel 2020 e all’1,5 dal 2021 (rispettivamente 23,1 e 28,8 miliardi). Escludendo questo effetto, il disavanzo si collocherebbe meccanicamente al 3,4 per cento del prodotto nel 2020, al 3,3 nel 2021 e al 3,0 nel 2022; l’avanzo primario sarebbe pari in media a circa mezzo punto percentuale del Pil”. Numeri confermati dall’Upb, che calcola anche come “in questo scenario ed escludendo inoltre i proventi attesi dalle privatizzazioni (di difficile realizzazione), il debito pubblico in rapporto al pil continuerebbe a salire anche dopo il 2019 per arrivare sopra il 135 per cento nel 2022 dal 132,2 per cento del 2018″. Il presidente Giuseppe Pisauro ha ricordato che tra 2015 e 2018 l’unico anno in cui il target di ricavi da privatizzazioni è stato raggiunto è il 2015 e che “prima del 2015 solo in tre occasioni si sono registrate dismissioni di importo superiore a 10 miliardi (1997, 1999 e 2003), mentre in quelli successivi i risultati sono stati largamente inferiori alle attese”.

Anche via Nazionale avverte che “l’evoluzione del rapporto fra debito e prodotto dipende dalla differenza tra l’onere medio e la crescita dell’economia, dalla dimensione dell’avanzo primario e dagli incassi dalle operazioni di finanza straordinaria. L’andamento di queste determinanti è soggetto a una elevata incertezza. Qualora una di esse risultasse, anche di poco, meno favorevole di quanto atteso dal Governo la riduzione del debito nel prossimo triennio sarebbe a rischio”.

Decreto crescita, Istat: “Riforma della mini Ires ha impatto maggiore su grandi imprese” – Blangiardo ha poi dato conto delle stime dell’istituto di statistica sull’impatto del decreto crescita, non ancora pubblicato in Gazzetta ufficiale a tre settimane dal consiglio dei ministri nonostante siano passati più di dieci giorni dal cdm che l’ha approvato. “Rispetto alla necessità di rilanciare gli investimenti i provvedimenti simulati, riferiti al ripristino dei super-ammortamenti e alle modifiche della mini-Ires, sono attesi generare una riduzione del prelievo fiscale per le imprese pari a 2,2 punti percentuali”. Il beneficio derivante dalla reintroduzione del maxi ammortamento “dovrebbe risentire del tetto di spesa previsto generando quindi un vantaggio fiscale contenuto (0,5% di risparmio IRES) con un impatto maggiore sulle medie imprese (sconto di imposta dell’1%) e minore sulle micro-imprese e su quelle con 500 e più addetti (0,3%)”, sottolinea Blangiardo, mentre la riforma della mini Ires “mantiene la detassazione sugli utili non distribuiti ma la dissocia dall’incremento dell’occupazione e degli investimenti. In particolare, non prevede alcun incentivo per l’apporto di capitale da parte dei soci, reintroducendo, in tal modo, il favore fiscale del debito rispetto al finanziamento con capitale proprio”. Dunque “si stima che abbia un impatto maggiore sulle grandi imprese, soprattutto su quelle che appartengono a un gruppo fiscale o sulle imprese multinazionali. Il risparmio fiscale complessivo attribuito alla misura risulterebbe pari all’1,7%”.

Il vantaggio fiscale derivante dal passaggio dal 40% al 50% della deduzione Imu dall’Ires invece “comporterebbe un risparmio dello 0,2% premiando prevalentemente le imprese fino a 9 addetti e le imprese dei servizi a bassa intensità di conoscenza (-0,4%). Considerando l’insieme dei tre provvedimenti, la riduzione Ires risulta maggiore per l’industria, soprattutto nei settori a medio-bassa intensità tecnologica (-2,9% di debito d’imposta Ires), per le imprese di medie dimensioni e le multinazionali (-2,8% per entrambe le tipologie)”.

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