Ritirarsi quando sei ancora in grado di mettere 15 punti a partita in Nba suona un po’ come uno spreco. Anche se nella tua carriera hai dimostrato tutto. Anche se ti porti appresso 37 anni e mille acciacchi. Anche se ti chiami Dwyane Wade e già da tempo avevi preparato il mondo al tuo addio. Alla fine, però, l’ultimo ballo è arrivato anche per lui. La guardia, il capitano, la bandiera, la leggenda dei Miami Heat ha detto basta dopo 16 stagioni. E lo ha fatto in una notte romantica (tripla doppia d’annata per D-Wade), ma anche amara, con una sconfitta in casa dei Brooklyn Nets e con il sogno di raggiungere i Play Off ormai svanito da tempo. Non un commiato memorabile insomma, ma il cammino, quello sì, è stato unico.

Un viaggio che diventa un film se ad affrontarlo è un uomo che di soprannome fa Flash e che per almeno una manciata di anni i superpoteri pareva averli per davvero. La sua odissea parte da un quartieraccio di Chicago in cui se sei fortunato finisci in una gang o spacci e dove spesso le due cose si combinano. Wade ci resta fino agli otto-nove anni, quando la polizia sfonda la porta di casa e gli punta una pistola alla testa. Gli agenti cercano sua madre, JoLynda, che “di mestiere” fa la tester di droghe e lancia una moneta: se la partita è tagliata bene guadagna qualche dollaro, se è tagliata male Dwyane e la sorella restano orfani.

A strappare il fratellino a quel destino è quindi proprio la sorella, Tragil, di qualche anno più grande: “Vivevamo in quella che si può definire ‘una casa abbandonata’ e io ero la sua miglior amica. Non aveva molti amici, a dire il vero, e ogni piccolo passo che faceva io c’ero”. I due si trasferiscono dal padre, che ha divorziato da JoLynda quando Dwyane aveva appena quattro mesi e che ha tanta voglia di recuperare il tempo perduto. È molto severo, soprattutto con il figlio, a cui trasmette una forte etica del lavoro. Il talento per la palla a spicchi, invece, è già tutto lì.

Dwyane arriva alla high school, strizza l’occhio al football ma alla fine sceglie la pallacanestro e l’Università di Marquette. Il primo anno però lo passa in panchina, anzi, nemmeno: i suoi voti sono troppo bassi per poter essere inserito nella squadra e non gli resta che star chino sui libri e allenarsi. In compenso domina le due stagioni seguenti, trascinando il suo college alle Final Four di Ncaa prima di rendersi eleggibile per il Draft Nba del 2003. Qui viene scelto da Miami con la quinta chiamata, alle spalle di Lebron James, Darko Milicic (che, dopo aver deluso sul parquet ed essersi dato all’ittica e alla kickboxe, oggi fa il contadino: non proprio una promessa mantenuta), Carmelo Anthony e Chris Bosh. E inizia così a scrivere la sua storia e quella della franchigia della Florida.

La prima stagione tra i pro è positiva. Indossa la canotta numero 3, conquista un posto nell’All Rookie First Team e ai Play Off pianta in faccia a Baron Davis un canestro che fa epoca. La dirigenza si sfrega le mani, lo coccola e decide di investire. In squadra c’è già Alonzo Mourning e nell’arco di due estati atterrano a Miami anche Gary Payton, Antoine Walker, Jason Williams e soprattutto Shaquille O’Neal, stella in fuga da Los Angeles. Con questo roster, nel 2006, Wade e gli Heat conquistano il loro primo titolo di campioni Nba. Flash chiude le Finals contro i Dallas Mavericks di Dirk Nowitzki con 34.7 punti, 7.8 rimbalzi, 3.8 assist e 2.7 recuperi di media, si accaparra il titolo di Miglior giocatore delle Finali e mostra i primi sintomi di onnipotenza.

Sono anni magici, in cui su un campo da basket gli riesce praticamente ogni cosa. Stoppa, ruba, passa, va a rimbalzo, ma soprattutto schiaccia. È un atleta totale, ma c’è di più. Ci sono carisma, leadership e uno stakanovismo che gli erode letteralmente il fisico. Scricchiola prima la caviglia, poi la spalla e infine a presentare il conto sono le ginocchia. Affiorano due lividi ossei e arriva l’artrite, che gli fa pensare al ritiro già quando in Florida lo raggiungono proprio James e Bosh. È il periodo dei Big Three e di una piccola dinastia, delle quattro Finali in quattro anni e dei due anelli consecutivi – “uno per Lebron e l’altro per me” -, delle amare sconfitte con Dallas e San Antonio e dell’All Star Game in tripla doppia (terzo giocatore nella storia a farlo).

Nel 2016 gli scade il contratto e gli viene un’altra piccola tentazione. Quella di tornare a casa, a Chicago, e firmare per i Bulls. Non fosse altro che per la soddisfazione di giocare per la propria città e indossare i colori che da piccolo aveva visto addosso a Michael Jordan. A dire il vero, tutto si risolve in una parentesi che aggiunge poco alla sua storia in Nba. Come pure restano anonimi i sei mesi trascorsi alla corte di King James in Ohio, con i Cleveland Cavaliers. Alla fine il richiamo delle onde è troppo forte e nel febbraio 2018 sceglie così di tornare a Miami per scrivere gli ultimi versi della carriera.

Avrebbe potuto giocare altri due o tre anni, l’ha confessato di recente. Avrebbe potuto concederli a se stesso e al suo pubblico. Avrebbe voluto quanto meno raggiungere per un’ultima volta i Play Off e magari regalarsi un’altra piccola impresa, superando il primo turno. Stanotte però sugli spalti, accanto al padre e alla sorella, c’era anche la madre, che ha piantato la droga e oggi predica in una Chiesa nel South Side di Chicago. Gliel’ha comprata lui, Dwayne. Che guardandosi indietro ora può dirlo: dalla notte in cui piombò in casa la polizia è stato un bel viaggio, ma bello per davvero.

Twitter: @Ocram_Palomo

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