L’otto febbraio è partita la raccolta firme su un disegno di legge popolare relativo ai “beni comuni”. L’iniziativa non va sottovalutata perché rappresenta, secondo i suoi promotori, la sintesi e il coronamento di un lavoro di elaborazione coadiuvato da diversi luminari del diritto e portato avanti, a partire dal luglio 2007, da un’apposita Commissione ministeriale presieduta dal compianto Stefano Rodotà.
C’è anche un’altra ragione per tenere d’occhio la faccenda: in un periodo in cui ci si azzuffa per capire a chi spetti la proprietà dell’oro italiano (senza trovare una risposta condivisa) e in cui non passa giorno senza che qualcuno invochi più privatizzazioni e liberalizzazioni, una legge sui beni comuni potrebbe rappresentare un’opportunità da non perdere per difendere quel che resta del patrimonio della Repubblica. In teoria. In pratica, bisogna, come suol dirsi, leggere bene le carte, tenendo conto che si tratta di un disegno di legge delega, cui dovrebbe poi dare ulteriore corpo e sostanza il governo con un successivo decreto legislativo.
La ratio della riforma è indubbiamente lodevole: fare in modo che siano considerati “comuni”, e quindi meritevoli di una peculiare attenzione da parte del legislatore, certi beni di interesse oggettivamente collettivo come ad esempio i fiumi, i torrenti, le sorgenti, i laghi e le altre acque, i lidi e le coste, l’aria, le foreste, i boschi, le zone montane d’alta quota. Tutte cose rispetto alle quali – recita il testo – “deve essere garantita la fruizione collettiva nei limiti e secondo le modalità fissate dalla legge”.
E tuttavia, poche righe sopra è scritto che i titolari dei predetti beni comuni possono essere sia persone giuridiche pubbliche sia soggetti privati. Ciò stride con il fatto che taluni dei beni dell’elenco (in particolare i fiumi, i torrenti, i lidi e soprattutto i laghi e le altre acque) sono invece considerati ad oggi, dall’articolo 822 del codice civile, inderogabilmente pertinenti al demanio pubblico. Essi cioè appartengono, per definizione, allo Stato e non possono essere ceduti ai privati. Perché allora una legge che, improvvisamente, li sottrae al monopolio demaniale?
Ma c’è di più: il progetto in questione punta ad abrogare, addirittura, la categoria stessa di demanio. Prevede, al suo posto, tre nuove specie di beni pubblici:
1. i beni ad appartenenza pubblica necessaria;
2. i beni pubblici sociali;
3. i beni pubblici fruttiferi.
Solo quelli della prima classe non sono alienabili né usucapibili e debbono restare sempre e comunque in mano pubblica. E per fortuna: vi sono ricomprese le spiagge, le reti stradali e autostradali, lo spettro delle frequenze, gli acquedotti, i porti e gli aeroporti di rilevanza nazionale e internazionale. Ma perché, allora, non sono stati inseriti nella lista “i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche” che oggi invece, e come anzidetto, in base al citato articolo 822 del codice civile, sono sicuramente demaniali?
Molte perplessità suscita anche la nuova tipologia dei “beni pubblici sociali” i quali sono alienabili (sia pure con rispetto del loro vincolo di destinazione): il che significa aprire le porte a possibili privatizzazioni. E ciò non è affatto tranquillizzante: parliamo di edilizia residenziale pubblica, ospedali, scuole, asili e reti locali di pubblico servizio.
Infine, il progetto di legge definisce beni pubblici “fruttiferi”, usucapibili e alienabili, tutti quelli che non ricadono in una delle prime due categorie di cui sopra. E qui occhio al dettaglio. Se dovessero essere eliminati, come pare, il demanio e il patrimonio indisponibile dello Stato potrebbero diventare disponibilissimi tanti gioiellini nazionali, tipo: immobili di interesse storico, archeologico e artistico, raccolte di musei, pinacoteche, archivi e biblioteche; e anche miniere, cave e torbiere, cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo. E salterebbe anche la tutela prevista dal Codice dei beni culturali (D. Lgs. 42, 2004) che fa espresso riferimento, appunto, all’abrogando articolo 822 del codice civile.
In definitiva, sorge il dubbio che questo progetto, al di là delle nobili petizioni di principio e dello sfoggio di aggettivazioni come “comune” e “sociale”, ci faccia correre il rischio paradossale di accelerare i processi di privatizzazione della cosa pubblica. Concorre ad alimentare il sospetto la genesi stessa della Commissione Rodotà, istituita con Decreto ministeriale del 21 giugno 2007 con l’obiettivo di generare un contesto giuridico dei beni “che fosse più al passo con i tempi e in grado di definire criteri generali e direttive (…) per la eventuale dismissione di beni in eccesso delle funzioni pubbliche” nonché di agevolare le procedure di contabilizzazione legate a “vendita e riaffitto” di beni pubblici.
In realtà, il demanio è un concetto tutt’altro che obsoleto. Esso contiene in sé tutto ciò che gli innovatori vorrebbero faticosamente recuperare con la farraginosa locuzione di “bene comune”. Infatti, secondo il grande giurista Massimo Severo Giannini, il demanio è “una proprietà collettiva”, cioè una proprietà che pertiene a ciascun cittadino in quanto membro del popolo sovrano. Una volta rottamato il demanio, scomparirà anche il concetto di proprietà pubblica collettiva e, con essa, un altro pezzetto della sovranità popolare. Scommettiamo che più di qualcuno si fregherà le mani per questo.
Un ultimo inciso. Si sta forse perdendo la storica occasione per risolvere una volta per tutte l’annosa questione dell’oro patrio. Sarebbe bastato integrare l’articolo 822 del codice civile inserendo, nell’alveo del demanio pubblico, anche le riserve auree acquistate e detenute nel corso degli anni dall’Ufficio Italiano Cambi o da Banca d’Italia.