Grande dev’essere stata la sorpresa dell’opinione pubblica italiana nell’apprendere che la Turchia non è un sultanato, come invece scrivono, proclamano, danno per assodato da anni i media italiani. Nei sultanati non si vota, e quando per qualche ragione i sudditi sono chiamati a ratificare le decisioni del sultano, il sistema ha i mezzi per assicurarsi che obbediscano. Invece in Turchia si è votato e il presunto sultano Erdogan ha perso malamente grandi città.
Ovviamente una democrazia parlamentare non è necessariamente uno Stato di diritto liberale, come insegna, per esempio, l’Ungheria di Viktor Orban. Ma finché reggono, ancorché malmesse, le istituzioni che proteggono un certo grado di libertà, a cominciare dalla magistratura, è possibile che l’Uomo forte sia mandato a casa e la democrazia ripulita dei tratti autoritari che quello ha introdotto.
Con questa possibilità l’Europa che conta oggi dovrebbe misurarsi per recuperare la Turchia al continente e per sottrarla al nazionalismo islamico cavalcato dal presidente e dal suo Akp (peraltro un’ala del partito non segue Erdogan su questa china). O quantomeno per evitare che un Erdogan meno saldo di quanto fosse prima, e in prospettiva sempre più logorato da una grave crisi economica, cerchi di recuperare gloria e lustro con qualche azione avventata in uno dei tanti scacchieri nei quali Ankara è impelagata, a cominciare dalla Siria settentrionale e dalla guerra d’attrito con le milizie curde.
Purtroppo si tratta di settori geopolitici nei quali l’Europa nel suo complesso è inerte o assente, malgrado siano in gioco suoi interessi strategici.
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