di Mirta Mattina, psicologa e psicoterapeuta

Cosa c’è di vero nell’idea che la scelta di abortire sia sempre dolorosa e che l’Ivg lasci segni indelebili sulla psiche della donna? Idea spesso propagandata al punto che anche i media rischiano di veicolarla, contribuendo alla narrazione di un dolore inevitabile e insito nella decisione. In realtà si tratta di un’idea infondata che non ha conferme scientifiche.

Nei giorni del Congresso di Verona mi sembra importante ribadire che non esiste alcuna evidenza rispetto alla cosiddetta “sindrome post abortiva”, un corollario di sintomi quali depressione, angoscia, senso di colpa, ideazione suicidaria che, secondo i suoi sostenitori, sarebbero associati all’’Ivg. Al contrario i dati scientifici affermano che la scelta libera di interrompere una gravidanza non ha effetti dannosi sulla salute psicologica della donna.

Uno studio della American Psychological Association ha analizzato la letteratura scientifica sul tema a partire dal 1989, dimostrando che nelle donne che hanno interrotto una gravidanza non pianificata non c’è un maggiore rischio di sviluppare problemi di salute mentale; l’Apa ha messo in luce poi quali siano i fattori associati al vissuto psicologico dell’esperienza dell’aborto evidenziando che il sentirsi sottoposte a stigma sociale, il percepire la necessità della segretezza, l’essere esposte ad attività di gruppi contro la libertà di scelta (picchetti antiabortisti davanti agli ospedali o materiali di propaganda), la percezione di un basso supporto sociale, possono influenzare negativamente le esperienze psicologiche delle donne, causando – questi sì – effetti negativi sulla loro salute mentale.

Un altro studio ha descritto le conseguenze, dal punto di vista socioeconomico e della salute mentale e fisica, in donne che avevano una gravidanza non voluta, comparando chi ha scelto di interromperla e chi l’ha condotta a termine. Lo studio (concluso nel 2015 e durato 5 anni) ha coinvolto circa 8mila donne e ha prodotto oltre tre dozzine di articoli scientifici. Da tale imponente molte di dati emerge che molte delle affermazioni comuni sugli effetti dannosi dell’aborto non sono supportate da prove. Le donne che hanno avuto un aborto non hanno un rischio maggiore di depressione, ansia o ideazione suicidaria rispetto alle altre. Inoltre il 95% delle donne intervistate a cinque anni dall’Ivg ha confermato che fosse stata la decisione migliore.

Oltre alla conferma dell’assenza di un aumentato rischio, il Turnaway Study ha evidenziato delle conseguenze gravi nelle donne che non possono accedere all’Ivg e sono costrette a portare a termine una gravidanza non desiderata: è più probabile che si verifichino gravi complicazioni nella parte finale della gravidanza tra cui eclampsia e morte. Non solo, è più probabile che rimangano legate a partner violenti, è più probabile che soffrano di ansia e perdita di autostima a breve termine, è meno probabile che abbiano piani di vita ambiziosi. Inoltre lo studio rileva che negare l’aborto ha gravi implicazioni per i bambini nati da una gravidanza indesiderata, così come per i bambini già presenti nella famiglia.

Tali ripercussioni sul piano psicologico trovano numerosi altri riscontri nella ricerca e per questi motivi le linee guida evidence based (come quelle del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists UK revisionate nel 2018) confermano ancora una volta l’assenza di effetti negativi sulla salute mentale delle donne che scelgono di abortire e sottolineano l’importanza di favorire l’accesso all’Ivg, dal momento che nei Paesi dove l’aborto è libero e garantito l’Oms sottolinea che ci sono i più bassi tassi di mortalità. Uno studio pubblicato su Lancet e durato 25 anni (1990-2014) ha evidenziato come l’assenza di leggi o le restrizioni all’accesso non determinino una diminuzione dell’aborto ma un aumento della pratica clandestina che costituisce un grave rischio per la salute delle donne.

I fattori di rischio associati a un vissuto negativo (basso supporto sociale, bassa autostima e autoefficacia, strategie di coping basate sull’evitamento) sono allo stesso tempo predittivi di reazioni negative anche verso altri eventi stressanti della vita incluso il parto. In particolare tali caratteristiche sono associate al rischio di depressione post-partum. Ciò significa che le donne che hanno uno o più fattori di rischio di questo tipo potrebbero provare reazioni psicologiche negative anche se compiono una scelta diversa dall’Ivg (maternità o adozione). Con ciò non voglio affermare che non ci siano donne che vivano dolorosamente o con ambivalenza la propria scelta di abortire e il loro vissuto merita la garanzia di un’assistenza psicologica adeguata, ma prescrivere la Pas a ogni donna che abortisce, nega la soggettività e le differenze individuali e afferma un dato falso.

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