“Questa direttiva non ha alcun valore rispetto alle normative internazionali”. Gianfranco Schiavone, vicepresidente di Asgi – Associazione studi giuridici sull’immigrazione – non usa mezzi termini nel definire una prevaricazione la direttiva diramata dal Viminale e firmata da Matteo Salvini allo scopo di impedire lo sbarco dei 49 migranti salvati da Mare Jonio, la nave della Ong Mediterranea. E ne contesta l’interpretazione della normativa internazionale. Il documento si intitola “Direttiva per il coordinamento unificato dell’attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto all’immigrazione illegale” ed è il manifesto dell’approccio di Salvini alle operazioni di salvataggio. In uno slogan: salvataggi sì, ma sbarchi mai, a meno che non ci sia un coordinamento delle operazioni di salvataggio da parte della Guardia costiera italiana. “Vanno necessariamente cristallizzate e sanzionate quelle condotte esplicitamente dirette alla violazione della normativa internazionale in materia di soccorso e della normativa nazionale ed aleuropea in materia di immigrazione, perpetrate in modo continuativo e metodico – si legge nel documento -. Né vanno sottaciuti i rischi concreti che nel gruppo di migranti possano celarsi soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per la sicurezza o l’ordine pubblico”.

Il caso Mare Jonio, per il Viminale, rientra in questa fattispecie. La direttiva non la nomina, ma si riferisce all’imbarcazione della Ong quando fa riferimento a casi in cui “l’Autorità Nazionale di Pubblica Sicurezza” può “valutare, nell’esercizio delle proprie competenze, l’eventuale adozione delle iniziative e dei provvedimenti ritenuti urgenti, necessari ed indifferibili nell’ambito della cornice normativa vigente”. Cioè la chiusura dei porti. Mare Jonio, sostiene il Viminale, ha navigato “autonomamente e deliberatamente verso le frontiere marittime esterne europee e, segnatamente, verso le coste italiane” quando non è riuscito a ottenere il place of safety (luogo di sbarco sicuro) perché ha “effettuato il soccorso in acque non di responsabilità italiane”.

Per Schiavone, però, questa lettura è un totale stravolgimento di quello che prevede la normativa. “Siamo in una situazione particolare: la Mare Jonio è una nave italiana che ha fatto un intervento necessario sul piano oggettivo”, spiega Schiavone. La necessità è testimoniata dl fatto che quando è intervenuta il gommone su cui erano a bordo i migranti si stava già sgonfiando. L’urgenza è incontestabile e quindi diventa superfluo il fatto che non ci sia un Mrcc, centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio, in carica di gestire il salvataggio. Intervenendo a Radio Anch’io Luigi Di Maio, in linea con i principi espressi nella direttiva di Salvini, ha detto che “questa è una Ong italiana e non può permettersi di disobbedire alla guardia costiera libica”. Non esattamente. Schiavone cita infatti l’articolo 490 del Codice della navigazione, che dispone gli obblighi di salvataggio e il 1158 che sancisce “la pena è della reclusione da uno a sei anni, se dal fatto deriva una lesione personale; da tre a otto anni, se ne deriva la morte”. “Non era solo un diritto – commenta Schiavone – intervenire era un obbligo, altrimenti si sarebbe commesso un reato”.

Nella direttiva il Viminale scrive sempre che i soccorsi sono necessari, ma che l’Italia non deve restare il solo Paese a condurla. “Lo abbiamo sempre detto, ma dipenderà dalle circostanze. Qui siamo di fronte a una nave italiana che si sta dirigendo nel posto più vicino”, ribadisce Schiavone. “Se l’Italia non li vuole deve indicare un porto di sbarco e motivarlo”, aggiunge. Perché l’intervento di salvataggio, secondo il diritto internazionale, si chiude quando i migranti vengono portati a terra. Per quanto irrilevante sul piano del diritto internazionale ai fini di ottenere un porto di sbarco, l’Italia ha contestato ad esempio nel caso Sea Watch il fatto che la nave non battesse bandiera italiana, chimando in causa l’Olanda. Non può succedere in questa circostanza.

Nella direttiva, il Viminale aggiunge che i porti italiani non possono essere “gli unici, possibili luoghi di approdo in caso di eventi di soccorso, considerato che sia i porti libici, tunisini e maltesi possono offrire adeguata assistenza logistica e sanitaria”. Di nuovo includendo nella lista dei “porti sicuri” la Libia, che invece non lo è, seppure l’Italia abbia ormai demandato i soccorsi ai libici. “Quello che ci dovrebbe colpire è invece che questa nave appena ha cominciato la sua perlustrazione ha già trovato un barcone che stava per affrontare – prosegue Schiavone -. Se non ci fosse stata, il gommone sarebbe affondato e non avremmo saputo nemmeno dell’esistenza di queste persone. Quante situazioni come questa esistono di cui però non siamo a conoscenza?”. La domanda resta senza risposte, visto che in particolare nel mese di febbraio Alarm Phone, servizio che aiuta i migranti in difficoltà, segnalava come ormai la maggior parte degli interventi in acque libiche siano condotti da navi commerciali. Sul piano delle conseguenze che potrà avere chi non segue queste direttive, un’indicazione può arrivare dalle parole dell’ex capo di gabinetto del Viminale, Mario Morcone, intervistato da Report nella puntata del 18 marzo. Quello che si rischia a non rispettare un ordine del genere è prima di tutto la propria carriera.

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