La caduta dei potenti fa sempre rumore. E il tonfo non può che risultare assordante quando a precipitare è l’uomo che sfoggiava con orgoglio l’altezzoso soprannome de “il Celeste”, colui che volle consacrare il segno del proprio comando con la realizzazione di un grattacielo dotato di eliporto per i propri uffici. L’ex-intoccabile Roberto Formigoni, già dominus della Regione Lombardia per quasi 20 anni, ex-aspirante leader del centrodestra in immaginifici scenari di successione a Silvio Berlusconi, nel varcare le soglie del carcere di Bollate dopo la conferma della condanna per corruzione ha scritto suo malgrado una pagina della storia italiana, che quasi mai ha visto una così degradante conclusione delle parabole più elevate di potere.

Eppure i cinque anni e dieci mesi di condanna a fronte degli almeno 6 milioni e 600mila euro di “denaro e altre utilità” – il pegno pagato da ospedali e cliniche private all’ex Presidente regionale per lucrare grazie a leggi e provvedimenti ad hoc, utili a far incassare loro un paio di centinaia di milioni di euro – rappresentano tutto sommato una pena modesta. Considerata anche la voragine di almeno 80 milioni di euro creata nei bilanci regionali dai rimborsi e dai versamenti per funzioni non tariffabili riconosciuti agli infaticabili erogatori di fondi neri della clinica Maugeri e del San Raffaele, nonché l’efficienza meneghina con la quale i suoi sodali avevano organizzato i loro traffici, dissimulando i versamenti e la creazione di riserve non contabilizzate con false fatturazioni in un giro vorticoso di benefit ludico-turistici, viaggi, cene elettorali.

La riduzione della condanna in Cassazione rispetto all’Appello riflette lo scivolare di alcune “dazioni”, quelle più datate, nel cono d’ombra della prescrizione. Sfortunato, il Celeste: sarebbe bastato aggrapparsi a qualche intoppo procedurale e procrastinare ancora un po’ la conclusione del processo e magari l’avrebbe fatta franca anche stavolta, come già tanti altri pezzi grossi – quasi tutti, in verità – prima di lui.

Ma il sofisticato meccanismo corruttivo impiantato dal Celeste – con pagamenti differiti, mascherati in forme conviviali e svincolati da contropartita contestuale – pur rilevato dai radar dei magistrati, fornisce una rappresentazione esemplare di un’evoluzione più generale della corruzione italiana. Hanno avuto gioco facile, benché alla fine perdente nella valutazione della Cassazione, gli avvocati difensori di Formigoni nell’affermare la mancanza di correlazioni dirette tra la cospicua serie di sontuosi vantaggi ricevuti e la sequenza di provvedimenti politici – leggi regionali e atti di giunta – che tanta gratitudine avevano generato nei fornitori privati di servizi di assistenza sanitaria.

A dannare Formigoni nella caduta agli inferi della condanna in via definitiva e del carcere sono stati, presumibilmente, il sommarsi di un delirio di onnipotenza trasformatosi in presunzione di intoccabilità, e la progressiva conversione di quegli ingenti vantaggi in gratificazioni personali sempre più difficilmente dissimulabili – noleggio di yacht, acquisto di ville in Sardegna, viaggi. Con un poco più di prudenza e cautela nelle modalità di ricezione, ad esempio incassandole mediante lo schermo di una fondazione politica e reinvestendole per fini politici piuttosto che ludici, seguendo un approccio sperimentato con successo da altri, il legame tra i sollazzi privati del Governatore e le scelte politiche di fondo – che hanno governato l’estensione di moduli privatistici di gestione della sanità lombarda – si sarebbe diluito abbastanza da scongiurarne forse la riconducibilità a fattispecie del codice penale.

La corruzione tanto faticosamente ravvisabile nei singoli atti d’ufficio la si riconosce piuttosto nella logica di fondo che ha presieduto alla produzione di tutte quelle norme di legge e misure che hanno accompagnato la progressiva estensione al governo della spesa sanitaria lombarda un modello d’impianto neoliberista di privatizzazione dei modelli organizzativi nell’esercizio delle funzioni di assistenza sanitaria, comunque generosamente finanziate dalla mano pubblica ma delegate nella gestione a entità imprenditoriali votate al profitto. Politiche vulnerabili alla corruzione, sotto certi profili criminogene, come dimostrato da diverse vicende giudiziarie, tra cui quella della “zarina delle dentiere”.

Scelte programmatiche comunque strumentali a una svendita alla galassia imprenditoriale di Comunione e Liberazione, così come a una selezionata pattuglia di corruttori e faccendieri, di rendite create attingendo copiosamente dai bilanci pubblici. In queste forme innovative di corruzione legalizzata, i corruttori acquistano le norme di legge, rendendo superflua la loro violazione. Il Celeste incarna una politica che sull’altare di una dichiarata (ma raramente rilevata) efficienza si asservisce a interessi privati nella stessa definizione degli interessi collettivi, assumendo vesti che nello scenario peggiore rendono i suoi protagonisti immuni dal controllo giudiziario. Non è stato così per Formigoni. C’è da sperare che la sua capitolazione non consegni ai più abili e scafati tra i suoi emuli contemporanei una lezione che ne rafforzi in futuro le aspettative d’impunità.

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