Il mio post della scorsa settimana sul panettiere che non trova apprendisti disposti a lavorare di notte a 1400€ al mese è andato forte: migliaia di condivisioni sui social, una menzione in tv e un dibattito molto acceso sull’opportunità o la necessità di accettare o meno un lavoro ben pagato anche se le condizioni sono – a essere generosi- non proprio ottimali.

Vorrei tornare per un attimo sugli argomenti di chi sostiene la necessità assoluta e non negoziabile di accettare qualunque offerta pur di arrivare a fine mese; “in periodo di crisi si accetta qualunque cosa” oppure “il lavoro c’è ma i giovani preferiscono stare in poltrona o andare in discoteca” sono i commenti più gettonati. Ognuno conservi (come è giusto che sia) le sue opinioni, ma un elemento sembra sia sfuggito tanto ai commentatori della rete quanto a quelli in tv: possibile che della terza via, l’esodo verso l’estero, ci accorgiamo solo noi che non viviamo più in Italia? Possibile che nei ragionamenti solenni e calvinisti pronunciati da mezza Italia sulla religiosa necessità dell’altra mezza di accettare qualunque lavoro senza fiatare – perché le briciole sono sempre meglio di niente e se le frantumi sembrano di più – nessuno parli di quanti scelgono quella terza via e cioè l’emigrazione?

Gli italiani sono abituati ad accettare qualunque cosa, abituati a sbraitare per poi adeguarsi, ma sono abituati anche a emigrare. Chi può (e anche chi non potrebbe), cervello o meno, fa le valigie e va altrove; soprattutto le due fasce più colpite dallo psicotico sistema Italia e cioè chi ha qualifiche e chi non ne ha.

Così se per i panettieri oggi è difficile trovare un italiano disposto a lavorare sei notti su sette per 1400€, tra non molto sarà una missione impossibile. A quel punto, gli imprenditori potranno fare caroselli in tv, editorialisti e politici potranno dare fondo a tutto il repertorio di satira su chi piange miseria ma “non accetta qualunque cosa” ma se ad essere competitivi non saranno anche i salari proposti, per non chiudere il lavoro dovranno farlo gli imprenditori stessi. 

D’altronde non prendiamoci in giro: l’Italia è in crisi almeno da un paio di generazioni e trovare lavoro è stata sempre una lotteria. La crisi, nel nostro Paese, poi, è la condizione strutturale di una nazione occidentale benestante costruita su disuguaglianze sudamericane e votata al darwinismo sociale; quello italiano, insomma, non è un malanno passeggero.

Oggi partire per destinazioni vicine (e lontane) è semplice ed economico come non lo è mai stato e benché stabilirsi in nord Europa, meta più gettonata da chi parte, non sia una passeggiata ma un investimento a lungo termine, le migliaia di gruppi di “italiani a…” (aggiungere un Paese a caso, tanto siamo ovunque) testimoniano in quanti abbiano già fatto o stiano pensando di fare un passo verso la terza via tra accettare un ricatto e “passare una vita in vacanza”.

La rete della vecchia emigrazione, diventata più fragile con il boom economico degli anni 60, è stata rimpiazzata nell’ultimo decennio da una rete di nuova generazione, quella digitale, che ha contribuito ovunque a costruire delle economie più o meno grandi che vivono sul nuovo esodo: fuori dai confini nazionali è un flusso continuo di ristoratori, camerieri, pizzaioli, medici, psicologi, elettricisti, muratori, commercialisti, importatori, affitta-camere, italiani che lavorano – prettamente – con connazionali di nuova emigrazione. Questi sistemi economici paralleli a quelli delle nazioni ospitanti, lavorano con (e spesso sfruttano) italiani ma sono un trampolino di lancio per molti appena arrivati. E consentono di iniziare subito una nuova vita parlando giusto qualche parola di inglese.

Ecco, tra il grottesco calvinismo all’amatriciana di chi punta il dito contro i “choosy” e i commenti sprezzanti nei confronti dei giovani che “preferiscono andare in discoteca piuttosto che lavorare nel weekend” (io sto dalla loro parte: andare in discoteca come forma di “sciopero anti-sfruttamento”) ci sono tante opzioni quante destinazioni alternative all’Italia offre il mondo. E ringraziando il cielo, l’alta mobilità – quella che neghiamo ai poveracci che bussano alla nostra porta meridionale – non è più solo roba da ricchi.

A chi rifiuta i ricatti e va via dovrebbero fare un monumento: il dumping salariale si combatte dicendo no e rifiutando di lavorare per una ciotola di riso, non costruendo improbabili narrazioni sulla necessità di “lacrime e sangue” anche se i sacrifici vengono imposti solo a chi non ha alternative. Chi dice “no” salva anche l’Italia da se stessa e dal suo egoismo, altrimenti – tra non molto – al sistema produttivo del nostro Paese non resterà che sperare nella chiusura delle frontiere. Ma in uscita agli italiani.

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