Nipoti come i figli, figli come i padri. E una società senza possibilità di riscatto. Non è cosa inedita che nel nostro Paese non funzioni il cosiddetto “ascensore sociale”, cioè il meccanismo virtuoso che consente di progredire generazione dopo generazione, aumentando il benessere non solo economico, ma anche culturale e di posizione sociale. Il meccanismo è fermo. Bloccato innanzitutto dall’emergenza di avere il minimo indispensabile. Una specie di triste battaglia di posizione, laddove si vorrebbe invece guadagnare terreno e migliorare.

Chi proviene da condizioni disagiate, resta nel disagio e a malapena riesce a non regredire. Chi proviene da condizioni familiari agiate continua a occupare quello stato, senza interfacciarsi con nuovi inserimenti, senza godere di alcuna contaminazione. Il profilo è quello di una società immobile, secondo i dati raccolti dallo studio di due ricercatori della Banca d’Italia (ma indipendente dall’istituto), incrociando i dati tra i primi anni 90 e il 2016.

C’è però un dato che svetta tra tutti: la correlazione con il livello di istruzione. Sembra essere una specie di eredità pesantissima che si tramanda di generazione in generazione, addirittura nella scelta dell’istruzione superiore o – prima – nell’abbandono scolastico. E proprio quest’ultimo fatto assume le caratteristiche di un vero e proprio “difetto sociale”, al quale lo Stato sembra fare molta fatica a porre rimedio.

Elaborando dati provenienti soprattutto da Eurydice – l’agenzia europea per i sistemi e le politiche educative – la fondazione Openpolis ha stilato una profonda analisi sul fenomeno dell’abbandono al termine della scuola media.

L’ultimo dato certo – del 2011 – fotografava l’abbandono scolastico da parte del 18% dei minori. Stime attendibili dicono che oggi dovrebbe aver goduto di un buon miglioramento, portandosi attorno al 14%, che però è ancora troppo alto rispetto alla soglia che l’Ue ha indicato e molto distante da quella dei principali Paesi del continente. L’obiettivo generale è infatti al 10%, attorno al quale si attestano Germania e Gran Bretagna, mentre la Francia è addirittura sotto il 9%. Peggio dell’Italia solo Malta, Spagna e Romania.

Cosa significa? Due cose: che l’istruzione non è avvertita come un fattore utile e che, laddove si tratta di una scelta dovuta a condizioni di necessità, lo Stato non interviene con politiche di sostegno. O almeno non sufficienti.

Facile obiettare che la necessità della famiglia di sbarcare il lunario inviti a “mettere a reddito” prima possibile le nuove generazioni: si va a lavorare prima possibile per contribuire al bilancio. Peccato che – oltre a determinare quel blocco dell’ascensore sociale di cui si diceva all’inizio – questo meccanismo in realtà non funzioni come si crede. Se nel breve periodo l’idea di “un lavoretto qualsiasi purché renda qualche soldo” sembra funzionare, dopo poco va ad alimentare drammaticamente il mare della disoccupazione. La percentuale europea di giovani disoccupati tra coloro che hanno abbandonato presto gli studi è infatti altissima: 41% contro il 16%. Non c’è un dato per l’Italia, dove però la disoccupazione giovanile nel suo insieme fa registrare una percentuale doppia.

L’abbandono scolastico, insomma, produce esclusione sociale, povertà e necessità di altro intervento dello Stato. Che si ritrova a dover metter mano a un welfare sempre più colabrodo. Ma il nostro Paese non risparmia mai dati curiosi: il fenomeno dell’abbandono scolastico è infatti disomogeneo non solo tra nord e sud, ma addirittura tra regione e regione. Nel meridione il tasso è al livello dei peggiori in Europa: con un allarmante 18,5%. Al centro è di poco superiore all’obiettivo Ue. Incredibilmente nel ricco ed evoluto settentrione si coglie una distanza non da poco tra il Nordest, ormai al 10%, e il nordovest, ancora al 12%.

Probabilmente il Triveneto ha saputo ben far evolvere la sua tradizione rurale e di piccola impresa, comprendendo la necessità di diventare concorrenziale sull’export. Dove non è arrivato lo Stato sono arrivate le iniziative locali, come quella – poco conosciuta, ma dall’alto impatto sociale – di Agri.Bi Verona, ente partecipato da Confagricoltura, Coldiretti e sindacati di categoria, che ha fornito sussidi per 80mila euro per le spese scolastiche dei figli di operai agricoli. Chi va avanti con gli studi – nello stesso territorio – gode poi di un’offerta didattica sviluppata in modo mirato, con scuole superiori e facoltà universitarie legate proprio alla gestione dell’impresa agricola.

Il Nordovest sconta invece la crisi progressiva delle città industriali, che ha lasciato sul campo tradizioni professionali difficilmente riciclabili, ma anche qui lo Stato è in affanno e deve pensarci qualcun altro: un intervento è figlio della conversione all’economia digitale, che gioca un ruolo fondamentale nell’area e fa riferimento alla storica piattaforma on line di crowdfunding Produzioni Dal Basso. Si tratta di una raccolta di fondi per garantire il diritto alla studio a minori in contesti sociali ed economici difficili. Insomma dai tempi delle borse di studio per accedere alla migliori università, siamo passati a quelle per non abbandonare dopo la terza media. E non è davvero un bel segnale.

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