Salva-banche o salva-risparmio? Il decreto su Banca Carige varato lunedì sera dal governo gialloverde è subito finito al centro della polemica politica, con l’esecutivo che rivendica di aver tutelato i risparmiatori e il Pd che attacca: “Hanno fatto la stessa cosa che abbiamo fatto noi”. In attesa di leggere il testo definitivo, dalle bozze e dal comunicato del consiglio dei ministri emerge che il provvedimento ricalca in tutto il Salvarisparmio” firmato il 23 dicembre 2016 da Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan e sulla cui base l’estate successiva il Tesoro è diventato azionista di maggioranza dell’istituto senese investendo in tutto 6,9 miliardi. Differenti invece i casi delle quattro banche “risolte” nel novembre 2015, per le quali non sono stati spesi soldi pubblici, e di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, cedute a Intesa con una dote di 4,7 miliardi messi dallo Stato.

I due cardini del decreto sono la garanzia dello Stato sulle nuove obbligazioni emesse dall’istituto fino (stando alle bozze) a un valore di 3 miliardi e, nello scenario peggiore, la ricapitalizzazione precauzionale con soldi pubblici “nel limite massimo di 1 miliardo di euro per l’anno 2019″. Gli strumenti, cifre a parte, sono identici a quelli previsti dal decreto con cui a fine dicembre 2016 il governo Gentiloni autorizzò il ministero dell’Economia a “concedere la garanzia dello Stato sulle passività delle banche italiane” (su richiesta e a fronte di un corrispettivo economico), anche “per integrare il collaterale, o il suo valore di realizzo, stanziato da banche italiane a garanzia di finanziamenti erogati dalla Banca d’Italia per fronteggiare gravi crisi di liquidità”, e ad acquistare azioni di un istituto “al fine di evitare o porre rimedio a una grave perturbazione dell’economia e preservare la stabilità finanziaria”. Definizione identica a quella che si legge nelle bozze del provvedimento di lunedì. Lo stesso decreto istituì un fondo ad hoc finanziato con 20 miliardi di euro. Durante l’iter della conversione in legge il M5s contestò il governo Gentiloni.

Mps ricapitalizzata con 5,4 miliardi più 1,5 di ristoro agli obbligazionisti – Nel gennaio 2017 Mps varò due bond con garanzia pubblica per un valore di 7 miliardi. Nei mesi successivi per evitare il crac il Tesoro ricapitalizzò la banca con 5,4 miliardi, più 1,5 miliardi per compensare i detentori di obbligazioni subordinate al dettaglio vendute in modo scorretto. L’intesa con la Bce per evitare la contestazione dell’aiuto di Stato prevede che entro il 2021 il Tesoro esca dal capitale. Oggi le azioni della banca valgono intorno a 1,5 euro contro i 6,9 pagati all’epoca dallo Stato, che quindi registra una perdita virtuale di quasi 6 miliardi sull’investimento.

Altri 4,78 miliardi come dote per le Popolari venete – Altri 4,78 miliardi di soldi pubblici sono stati spesi per il salvataggio delle ex Popolari venete, bubbone scoppiato subito dopo quello di Mps. Il decreto del giugno 2017 con cui il governo Gentiloni ne ha disposto la liquidazione ha previsto infatti che le good bank fossero cedute a Banca Intesa al prezzo simbolico di un euro e con questa “dote” da destinare alla loro ristrutturazione e alla gestione degli esuberi. Azionisti e obbligazionisti subordinati sono stati azzerati, ma va ricordato che il valore delle azioni era già vicino a zero perché la mala gestione dei due istituti ne aveva fatto crollare i prezzi e circa il 70% degli azionisti aveva accettato l’offerta di transazione del fondo Atlante che nel 2016 era diventato socio di maggioranza. Per i bondisti subordinati è stato previsto un meccanismo di ristoro riservato però a chi avesse comprato i titoli prima del 12 giugno 2014 e rigorosamente “nell’ambito di un rapporto negoziale diretto con le medesime banche emittenti”.

Le quattro banche risolte: costi a carico del sistema – Molto diverso il caso di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara, che dopo essere state messe in liquidazione coatta amministrativa il 22 novembre 2015 dal governo Renzi furono ripulite dai crediti deteriorati (confluiti in una bad bank unica), rifondate nella veste di “good bank” e cedute le prime tre a Ubi Banca e l’ultima a Bper. Azionisti e obbligazionisti subordinati delle quattro banche, le cui difficoltà erano note da tempo alle autorità di vigilanza, sono stati azzerati per coprire parte delle perdite, come previsto dalla Direttiva europea Brrd che era stata appena recepita in Italia. Non sono stati utilizzati soldi pubblici (anche se nella manovra appena approvata il nuovo esecutivo ha stanziato 1,5 miliardi in tre anni per i rimborsi automatici agli investitori truffati). Il costo della copertura delle perdite, della ricapitalizzazione delle good bank e della dotazione di capitale della bad bank, per un totale di 3,6 miliardi, è stato sostenuto dal Fondo di risoluzione alimentato con contributi di tutte le banche. Il Fondo però, per l’Eurostat, è dentro il perimetro della pubblica amministrazione, per cui le risorse messe dal sistema bancario sono contate nel debito pubblico.

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