Nell’anno che volge al termine, ho visto decine di spettacoli teatrali (principalmente a Roma): molti mi hanno lasciato indifferente, alcuni mi hanno irritato, alcuni sono stati passabili. Ben pochi sono quelli che mi hanno colpito. Mi sembra giusto parlarvene, con una avvertenza: non si tratta di spettacoli convenzionali.

In primo luogo, segnatevi questi nomi: Teatro delle Stanze Segrete e Ennio Coltorti. Se volete vedere cosa è un vero spettacolo teatrale, recatevi in quella minuscola stanza di Trastevere e vivrete il miracolo di vedere Friedrich Nietzsche impazzire di dolore davanti ai vostri occhi. Devo senza dubbio segnalare Marco Cavalcoli, attore dalla spiccata versatilità, apprezzato in due spettacoli completamente diversi: Santa Rita & The Spiders from Mars (al Teatro Valle, in occasione della bella mostra dedicata a Paolo Poli), in cui si divide nella perfetta riproposizione, in doppia lingua, di David Bowie e, appunto, Paolo Poli; e Serge (all’Auditorium Parco della Musica, spettacolo sontuoso, esaltante per gli appassionati del tema quanto ostico per la massa), in cui invece, muto in scena, interpreta Sergej Djagilev, il celebre impresario padre dei Balletti Russi.

Un’altra felice scoperta è stata Il Sogno di Platone, di e con Andrea Colamedici. Assieme a Maura Gancitano, Colamedici ha fondato la casa editrice Tlon e all’interno della relativa libreria/teatro in zona Ostiense ho assistito alla conferenza-spettacolo dedicata al grande padre (da uccidere) della filosofia occidentale. Il racconto di Colamedici è ben strutturato (si intuisce un notevole labor limae concettuale dietro all’apparente improvvisazione) e fondamentalmente incentrato sulla necessità di conoscere approfonditamente la metafisica platonica (e la sua scissione tra spirito e materia) per poterla finalmente rovesciare e (con l’ambizione di andare oltre il cruciale lavoro di demolizione nietzscheana) rifondare una visione integrata dell’esistenza.

Colamedici, con una forma mentis consapevolmente postmoderna, nei suoi riferimenti spazia dalla filologia classica alle serie tv, cita versi di Montale con la stessa disinvoltura con cui menziona gli aspetti più grevi della quotidianità, mescola Gurdjieff e Simone Weil. Ma sa quel che dice. Alcune provocazioni sono discutibili, alcuni collegamenti pindarici faranno storcere il naso agli ortodossi dell’Accademia, alcuni accostamenti sono dichiaratamente dissacranti. Ma ha alcuni pregi fondamentali in quest’epoca di tenebre culturali: parla di temi filosofici cruciali, concilia una preparazione rigorosa a una notevole abilità di sintesi comunicativa, riesce a rendere comprensibili e coinvolgenti discorsi complessi su temi filosofici. Soprattutto, assieme alla Gancitano, è una delle poche voci colte che ha abbattuto la Torre D’Avorio e combatte (dialetticamente) in piazza, senza paura di sporcarsi le mani (o la corona d’alloro), la decadenza imperante della coscienza collettiva. Il loro laboratorio filosofico, costantemente in fieri, è tra le poche voci vive nel deserto culturale attuale.

A questo punto, come non citare chi da 30 anni affronta la filosofia a teatro? Nell’anno in cui Rezzamastrella hanno ottenuto il meritatissimo Leone D’Oro per il Teatro durante la Biennale di Venezia, ho avuto il piacere di rivedere a teatro due dei loro fenomenali spettacoli: Fratto X (del 2012) al Teatro Vascello, una delle vette performative di Antonio Rezza in scena, tra elucubrazioni matematicamente deliranti e impressionante tour de force fisico; l’irresistibile Pitecus (addirittura del 1995), in cui una serie di gag fulminanti e geniali (unico accostamento possibile è quello a Gli Scarabocchi di Maicol&Mirco) compongono uno spettacolo ancora folgorante dopo 23 anni di repliche.

Parlando di Rezzamasrella, non si può che lanciare un invito paradossale: salviamo La Divina Provvidenza! No, non è un appello teologico: La Divina Provvidenza è lo spazio storico in cui Rezza e Mastrella a Nettuno costruiscono i loro spettacoli, con prove aperte al pubblico. Il locale rischia uno sgombero, deciso senza nessun sopralluogo. I due autori stanno raccogliendo un grandissimo seguito popolare per contrastare una decisione che appare insensata. Tutta la mia solidarietà.

Detto ciò, se dovessi indicare lo spettacolo che più mi ha colpito del 2018, non esiterei a indicarne il titolo: L’Abisso di Davide Enia. Uno spettacolo importante, commovente, necessario. Un racconto dolente e umanissimo che ha tramutato una serata al Teatro India in un rito collettivo di espiazione e resurrezione. Tratto dal bellissimo libro, dello stesso autore, Appunti per un naufragio (Sellerio), lo spettacolo di Enia andrebbe mostrato ogni sera in prima serata sui canali nazionali: davanti alla testimonianza autentica, profonda, straziante e gioiosa dell’attore palermitano sull’agghiacciante esperienza degli sbarchi a Lampedusa, forse (e dico forse) il cinismo bestiale divenuto prassi istituzionale negli ultimi mesi potrebbe finalmente ritrovare un senso di vergogna e (chissà?) di umanità. Nessuna retorica, nessun buonismo, nessuna ideologia: solo il terribile splendore della verità, che nessuna propaganda potrà occultare.

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