Il nuovo procuratore dice che la ‘ndrangheta in Emilia ha radici “profonde ma abbastanza giovani“. Eppure le prime informative in materia risalgono al 1983. L’ assessore regionale, invece, rivendica i controlli nella ricostruzione post sisma: la sentenza Aemilia, però, racconta una realtà leggermente diversa. Nel giorno in cui 13 appartamenti e 10 autorimesse confiscati alla ‘ndrangheta vengono consegnati alla Guardia di Finanzia, che li utilizzerà come foresteria e alloggi di servizio, il piccolo comune di Sorbolo, in provincia di Parma, si scopre simbolo di riscatto nella lotta alle mafie in Emilia-Romagna. È uno dei luoghi dove la cosca Grande Aracri ha investito direttamente i propri soldi nella realizzazione di un vastissimo intervento immobiliare del valore complessivo di 20 milioni di euro tra il 2011 e il 2012. Erano coinvolte nell’affare, secondo quanto emerso al processo Aemilia, imprese edili riconducibili a uomini di spicco della consorteria, in particolare i capi emiliani Romolo Villirillo, Alfonso Diletto e Giuseppe Giglio, in stretto contatto con il boss Nicolino Grande Aracri.

È proprio per questo motivo che il presidente della regione, Stefano Bonaccini , sceglie la giornata in Matteo Salvini è a Sorbolo per parlare di “lotta alle mafie che non deve conoscere differenze politiche” e ricorda i 119 beni già confiscati alla criminalità organizzata che ritornano nella disponibilità dello Stato. Da Sorbolo gli fa eco l’assessore regionale alle attività produttive Palma Costi che dice: “Siamo impegnati nel contrasto alla illegalità centimetro per centimetro”, vantando anche il rigore nelle procedure e nei controlli sulle attività di ricostruzione post terremoto del 2012. Aemilia in realtà ci racconta che le attività illecite frutto di accordi tra imprese locali e uomini della ‘ndrangheta non sono mancate nei paesi colpiti dalle scosse, con le decine di migliaia di tonnellate di cemento amianto sparse nel territorio per spendere meno e ricostruire più in fretta. Ma la stessa inchiesta Aemilia ci racconta anche che i responsabili sono stati individuati, mandati a processo e poi condannati nell’ottobre scorso in via definitiva (nel rito abbreviato di Bologna) o in primo grado (nel rito abbreviato di Reggio Emilia).

Sempre a Sorbolo ha parlato anche il neo procuratore capo di Parma Alfonso D’Avino che ha detto: “Grazie a Dio le radici messe dalla ‘ndrangheta in Emilia Romagna sono abbastanza profonde ma relativamente giovani. Quindi l’auspicio è che si possano recidere queste radici”. Su quanto siano profonde queste radici, e su quanto sia indietro negli anni il tempo della semina, è ancora Aemilia ad aiutarci. L’attuale procuratore capo di Reggio Emilia Marco Mescolini, pm  al processo, ha ricordato alcuni giorni fa in un incontro presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Modena che una informativa di polizia del 1983 mostrava preoccupazione per i comportamenti da boss mafioso di Antonio Dragone, inviato al confino a Montecavolo di Quattro Castella, sulle colline reggiane. “Pervenivano numerose segnalazioni” dice l’informativa “che il Dragone Antonio è solito avere al seguito cinque o sei elementi che si alternano con altri, facendo notare chiaramente di essere addetti alla sua sorveglianza. I predetti sono soliti occupare per lunghe ore l’unico telefono pubblico della frazione, sito nel Bar Cooperativa, impedendo a chiunque di fruire dell’utenza. Sovente il Dragone si fa notare ad elargire forti somme di denaro con biglietti da 100mila lire ai suoi fidati, estraendo dalle tasche grossi pacchetti di banconote di tale taglio. Tale comportamento denota, senza ombra di dubbio, che il Dragone si trova a suo perfetto agio in questa provincia”. Ciò fa ritenere allora alla Polizia che Dragone e i suoi “potrebbero costituire una associazione di tipo mafioso”.

Correva l’anno 1983 quando la cosca crotonese si mostrava pubblicamente in collina, e correva il 1987 quando a Brescello arrivava Francesco Grande Aracri, fratello di Nicolino, condannato definitivamente per associazione mafiosa nel 2008 al processo Edilpiovra. Suo figlio Salvatore, detto “Calamaro”, verrà a sua volta condannato nel 2017 in primo grado a sei mesi per violenza privata. Aveva minacciato sulla piazza del paese l’esponente della Lega Nord Catia Silva, in vista delle elezioni amministrative del 2009. Con la stessa accusa e con l’aggravante del metodo mafioso sono stati condannati anche altri quattro imputati tutti residenti a Brescello: Girolamo e Carmine Rondinelli, Salvatore Frijio e Alfonso Diletto.

Verso Brescello, cinque anni dopo ancora, la cosca correva con un commando di uomini travestiti da Carabinieri sopra una finta auto dell’Arma ad uccidere Giuseppe Ruggero, per mettere a tacere la famiglia rivale che si preparava alla guerra. Dice un importante collaboratore di giustizia che Nicolino Grande Aracri aveva voluto compiere quell’omicidio nel modo più appariscente ed eclatante possibile, per dare un segnale a tutti in provincia ed anche a Cutro. Per questo il travestimento: per dire in gergo ‘ndranghetistico, che lui faceva “piovere e scampare quando e dove voleva”. Di Ruggero il commando conosceva tutti i movimenti e le abitudini, raccontò in aula il collaboratore Angelo Salvatore Cortese nel febbraio 2017: “Sapevamo quando andava a lavorare con il suo escavatore e quando tornava a casa”. Lo potevano uccidere ovunque. Siamo al 1992 e almeno in provincia di Reggio Emilia già si combatteva, si ammazzava e si moriva, senza paura di farlo alla luce del sole, per il controllo del territorio.

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