Cinquant’anni fa The Beatles pubblicavano uno dei dischi più importanti della musica popolare del Novecento. Un disco incompreso, venerato, imitato, spesso copiato spudoratamente, pietra miliare e (per usare un termine da qualche anno abusato) autenticamente seminale. Un oggetto indefinibile, una miniera impressionante di canzoni destinate a diventare classici immortali, uno zibaldone di ispirazioni improvvise rese compiute in attimi di perfetta felicità compositiva, un caleidoscopio di esperienze controverse e peculiari (i viaggi mistici in India, il consumo di droghe, il privilegio di essere la band più adorata del pianeta), con il loro portato, necessario e stordente, di esaltazione e depressione.

Il White Album non può essere definito un capolavoro, poiché tale definizione va stretta, pur essendo concettualmente il contrario di un’opera compiuta e matura: non ha la coesione interna di Sgt. Pepper, né l’equilibrio acrobatico di Abbey Road, per accostarlo alle altre grandi vette della seconda fase dei Fab Four. Il White Album rappresenta lo splendore massimo dell’esplosione, la massima tensione creativa che conduce alla rottura: nelle sessioni d’incisione (alcune delle quali ora filologicamente analizzabili nel cofanetto speciale uscito per l’occasione) i quattro membri del gruppo sono spesso divisi (fisicamente e interiormente), eppure in questo momento di distanza, le diverse personalità si esaltano nell’unione artistica. Brani apparentemente innocui e spensierati accanto a inni incendiari, placide ballate accanto a sperimentazioni estreme, momenti di purissima poesia accanto a beffarde provocazioni; solve et coagula: il bianco della copertina ricorda l’Opera al bianco, l’albedo, la fase alchemica di distillazione e purificazione dopo la nigredo (appunto, il caos originario da cui ha origine la creazione).

Dei molti modi di raccontare questo disco straordinario potremmo scegliere la divisione tematica (brani ispirati alla meditazione, composizioni introspettive, divertissement paradossali, viaggi psichedelici, parodie, semplici e stupende canzoni d’amore), la distinzione in generi (dal rock ‘n’ roll al country, da quello che potremmo definire proto-noise al blues, dalle suggestioni orientali alle parodie hollywoodiane) oppure quella per autori (mai così netta, in un momento in cui Lennon e McCartney non solo componevano ma in alcuni casi incidevano da soli le proprie composizioni, accanto ad alcune gemme di Harrison e a un brano di Ringo Starr, Don’t pass me by).  Ma, forse, la cosa più semplice è, nello spazio concessoci, scorrere rapidamente alcuni dei principali tra i 30 brani del disco.

Dopo l’inizio, ingannevolmente spensierato, di Back in the U.s.s.r., la prima gemma, Dear Prudence, in cui Lennon estrae il meglio della (per lui) deludente esperienza indiana in un brano strutturato similmente a un bhajan meditativo (splendidi i versi “The wind is low, the birds will sing/That you are part of everything”); Ob-La-Di Ob-La-Da, il rovescio allegro e bonario della borghesia irrisa in Piggies; While my guitar gently weeps, tra le canzoni più belle della storia del rock, composta da Harrison ispirandosi alle sincronicità dell’IChing, impreziosita da un immortale assolo di Eric Clapton; Happiness is a warm gun, una delle vette di Lennon, tre meraviglie melodiche in una canzone di 2’43”, un viaggio sonoro dalla depressione allo sberleffo all’erotismo mistico, folgorante summa del suo genio cantautorale; Blackbird, pura poesia melodica di McCartney, commovente brano ispirato a una militante nera del Movimento dei diritti civili; Piggies, potente inno satirico antiborghese di Harrison, ispirato a Orwell; Rocky Racoon, un incantevole prodigio melodico di McCartney, nato come gioco parodistico; Why don’t we do it in the road?, sconcia provocazione di McCartney in risposta a Revolution 9 di Lennon; Julia, un momento di pura commozione, Lennon che si mette a nudo in versi ispirati a Gibran, un dolente canto d’amore per la madre (e per Yoko Ono); Yer Blues, splendido blues nichilista di Lennon, con omaggi a Dylan; Sexy Sadie, la sardonica denuncia di Lennon contro il Maharishi; Helter Skelter (resa tristemente famosa dai deliri di Charles Manson), l’urlo dionisiaco del più famoso gruppo pop di tutti i tempi; il criticato manifesto pacifista di Revolution; la raffinata parodia del vaudeville di Honey Pie; la sperimentazione avanguardistica di Revolution 9 (citata magnificamente dai Simpson).

Certo, è una selezione arbitraria e discutibile (ad esempio, Cry baby Cry, checché ne dicesse l’autore, per me è una perla fiabesca di Lennon), ma comunque non abbiamo l’assurda pretesa di esaurire in un articolo breve la trattazione di un disco che da 50 anni continua a stupire il mondo. Su quasi ognuno dei 30 brani del disco si potrebbe scrivere un libro: questo, dunque,è solo uno spunto, un invito a scoprire e riscoprire il giacimento di bellezza che i quattro ragazzi di Liverpool donarono al mondo 50 anni fa.

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