Al termine della decade maledetta, si contano 30 trenta vittime, danni miliardari, polemiche sanguinose e ingiurie a 360 gradi. I primi dieci giorni di novembre sono un periodo critico per i disastri idrogeologici, inondazioni e frane. Solo negli anni ’10 del secolo, numerose vittime ed enormi danni furono causati dalle alluvioni nel Veneto (2010), a Genova e nell’isola d’Elba (2011), a Massa e Carrara (2012), in Sardegna (2013), a Chiavari (2014), nella Calabria Jonica (2016), tra Liguria e Piemonte (2016), nel Pescarese (2017). Senza contare le storiche catastrofi del 4 novembre 1966 a Firenze e Venezia e del 5 novembre 1994 nella valle del Tanaro, tanto per ricordare solo episodi visti da vicino.

Non siamo di fronte alla novità assoluta, perciò; ma non mancano le new entry, giacché la tempesta meteo-marina ligure e il vento devastante del Veneto – quando ne avremo valutato genesi, dinamica e severità – potranno forse entrare tra nella lista delle anomalie meteo-climatiche. Forse. Né si poteva prevedere che l’Italia sarebbe rimasta illesa dalla sequenza di disastri meteo-idrologici che ha colpito l’area mediterranea dopo ferragosto. Grecia e Croazia. Francia, Spagna e Turchia. Algeria e Tunisia. Da fine settembre a metà ottobre tutti questi Paesi sono stati feriti dai nubifragi, episodi che hanno prodotto al suolo devastazione e vittime. La probabilità di uscire illesi dalla maledizione autunnale non era elevata.

Viene chiamata in causa l’intensificazione dell’effetto serra, ma neppure questa è una novità: in un libro che scrissi 25 anni, la frase “aumento del rischio alluvionale” ricorre più volte. E l’impronta del cambiamento del clima è ormai riconoscibile in parecchi eventi estremi, come chiarisce una vasta indagine pubblicata nel 2016 dalla National academy statunitense. Un’evidenza confermata e condivisa dalla scienza in modo quasi universale, anche se il Senato della Repubblica ospita oggi, 13 novembre, un evento sul sedicente tema degli Impatti ambientali del cambiamento climatico: evidenze storiche e attuali. Una vetrina non insensibile alle sirene negazioniste, pur se, a prima vista, mancano veri esperti di scie chimiche. Ma è evidente a tutti che, da sempre, non è la vetrina di Google Scholar a selezionare in Italia le migliori competenze scientifiche, tanto meno quelle tecniche.

Dopo il bar sport dell’ingegneria dei viadotti stradali si è aperto ora quello del meteo e dell’idrologia. Lo schiamazzo della politica ha sciorinato ancora una volta i luoghi comuni più banali. Tutti focalizzati sulla richiesta o sulla promessa di finanziamenti miliardari, perché ciò che conta sono solo i soldi. E di questo si è soprattutto parlato sui giornali e in tv. Chi credeva che la ripetitività ossessiva della questione idrogeologica italiana avesse migliorato perlomeno il lessico è stato profondamente deluso. Assieme ai soldi, che sono il vero obiettivo, un coro unanime ha chiesto la messa in sicurezza del sistema idrogeologico, come se idrografia e geomorfologia fossero la creazione di un meccanico che aveva alzato un po’ il gomito. Messa in sicurezza: unico irragionevole obiettivo che l’Italia persegue da più di 150 anni senza mai avvistarlo se non durante qualche temporaneo iato climatico, come ho raccontato in Bombe d’Acqua, Alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio. Nei talk-show più sgangherati – interrotti dalla promozione dell’offerta caritatevole via telefono di ordinanza – la questione idrogeologica si è poi intrecciata con la questione meridionale. Una nuance che merita alcune considerazioni.

“Stanno sorgendo da diverse parti proposte, iniziative e appelli per il soccorso alle vittime dell’alluvione nel Mezzogiorno. Si parla di raccogliere indumenti e si propone di stralciare una certa quota dalle scommesse del totocalcio; si suggeriscono spettacoli di beneficenza e si chiede amabilmente a dame e a gentiluomini di distogliere qualche quattrino dalla posta in gioco durante la gentile partita a canasta. Bellissime cose: seppure verrebbe voglia di chiedere a dame e a gentiluomini, a principi, baroni e miliardari, che si sono ingrassati sulle miserie e sulle sventure del Mezzogiorno, assai di più della piccola offerta durante la canasta e del biglietto per la recita di beneficenza. Ma sia così; in Italia chiedere al principe calabrese, che raduna graziosamente sotto il suo scettro decine di migliaia di ettari di terra, o al re della gomma miliardario, cento milioni – e cioè una briciola del suo banchetto – per i disastrati del Mezzogiorno, è andare contro il Vangelo, la morale pubblica e le autorità costituite”. Non sono parole mie, ma l’editoriale di Pietro Ingrao su L’Unità del 31 ottobre 1951. L’accorata invocazione di una legge speciale per le vittime delle alluvioni meridionali. Colpisce la chiarezza dell’analisi. Un quadro sociale facilmente adattabile all’Italia di oggi, magari sostituendo il burraco alla canasta. E lo show in tv che stimola le donazioni via sms al posto della recita di beneficenza con la bustina gialla. Né si può ignorare la presenza costante, ossessiva, irrisolta della questione meridionale, che si esalta nei disastri naturali.

Nel 1951 c’erano stati in Calabria più di cento di morti, quasi mille case crollate, 4500 senzatetto, grandi agrumeti e piantagioni distrutte, la rovina per centinaia di famiglie di mezzadri e braccianti rimasti a lungo senza lavoro; in Sicilia 35 morti, trecento case crollate e 1500 senzatetto; in Sardegna cinque vittime, 450 case crollate e tremila senzatetto. Tutti dati ufficiali, gravemente sotto stimati. Ma bastarono due settimane perché calasse il silenzio: l’alluvione del Polesine, con altre 84 vittime, più di 180mila senzatetto e danni enormi e diffusi su un vasto territorio, fece rapidamente dimenticare il disastro meridionale. A qualche senatore a corto di idee, suggerisco infine l’incipit con cui prodursi in una bella orazione parlamentare, corredata di congiuntivi al posto giusto. “È evidente che quando piove la colpa non è del governo, checché ne dica un ironico detto popolare. Ma quando si ripete a distanza di uno o due anni, a distanza di qualche mese, a distanza di tre settimane, il fatto che precipitazioni tempestose, di una notte o di alcune giornate, danno luogo a catastrofi sterminate, è allora evidente che ci si debba porre il problema di quelle cause profonde, che non stanno soltanto nella natura, ma nell’azione degli uomini e nell’ordinamento della società”. Applausi. Gli applausi non costano niente. Non so se l’autore sia identificabile tramite Wikipedia ma, se così non fosse, invito i lettori a indovinarlo nei commenti.

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