È il titolo dell’opera prima di un’artista che esordisce come scrittrice, Carla Milesi di Gresy, scultrice e donna di tendenza, fondatrice nel ’87 di Concreta, laboratorio di ricerca dove collaboravano creativi di fama mondiale come Starck, Arad, Mendini, Sottsass, Citterio. Adesso come mentore ha avuto Massimo Fini che solitamente concede il suo tempo raramente. Massimo legge poco (per problemi alla vista) ma ascolta molto. Ogni pomeriggio per tre mesi Carla andava a casa sua e gli leggeva qualche pagina, gli srotolava la sua “disidentità”, termine usato dal suo psicologo: “Io vivo tutto, non so se posso permettermelo. Ma sono una privilegiata e in questo modo non lo sono più”.

Nella saletta rossa del Teatro Franco Parenti, gremitissima solo posti in piedi, Fini prende la parola, adesso tocca a lui sfogliare strato dopo strato la vita di Carla, la borghese ribelle, laurea con tesi sulla mafia, Carlina per gli amici, che si reinventa la creatività, che naviga senza rotta, in fuga perenne. Snob ma anche anti/snob. Espone le sue sculture in cemento ispirate alle sue origini industriali ai giardini del Louvre a Parigi e trasforma il suo antico chalet di Gstaad in home gallery. Al primo vernissage, lo scorso agosto, c’era pure Roman Polanski.

Il titolo intrigante “Come si faceva a vivere nell’Ottocento senza tranquillanti?” (casa editrice Bietti) o antidepressivi (potremmo aggiungere) nasce da un triste episodio di storia familiare: un lontano prozio si suicida per un senso di onore al suo debito, come si usava a quei tempi. Insolita domanda per un insolito Massimo Fini, opinionista tagliente e tutt’altro che “tranquillizzante”.

“Parto dalla fine – dice Fini- Quando  il padre dei suoi figli si ammala, quello che era stato un embrione d’amore diventa il grande amore. Sono  pagine commoventi e struggenti quelle del diario che lei tiene nei due mesi della malattia, lui, Papi, si trasferisce a casa di lei, la stessa casa dove erano cresciuti i loro due figli. Carla prende nota del peso che diminuisce, dei capelli sempre più radi, degli abiti che gli cascano addosso, ma tutto senza mai perdere la tenerezza. Come quando si vestono a festa per andare a fare l’ultimo (e purtroppo inutile) ciclo di chemio. E lo fanno per ‘snobbare’ la morte”.

Rinasce così al capezzale di Papi quella storia d’amore interrotta troppo presto (erano appena ventenni) o forse mai finita. Un amore che oggi avrebbe innumerevoli followers ansiosi di mescolare i propri patimenti con quelli di Liz (è il nome della protagonista). “E Liz diventa Carla che alla fine si risolve – le sorride Massimo – Almeno parzialmente”.

Il libro è anche un ritratto della borghesia intellettual/chic e non (Antonio Citterio, Sergio Cusani e Achille Mauri sono seduti in prima fila), è una polaroid del mondo artistico/radical/pop newkorkese. Quando Basquiat fece uno scarabocchio su un tovagliolo di carta e lo regalò a Carla. Tra una convivenza con John Malkovich, la finca di Ibiza, il riad di Tangeri, un’amicizia sconfinata con Elio Fiorucci e party con Madonna, si dipana un’esistenza di eccessi (jet set e  bassifondi) ma anche di costrizioni e ansia  e fragilità. Avere molte scelte è, sì, un privilegio ma anche una condanna. Perché come diceva Dostoevskij: “La cosa più tormentosa per un essere umano è quella di essere messo davanti a una scelta”. Erano i ruggenti  anni  ‘80 dello Studio ’54 di New York quando a mezzanotte si apriva la tenda che separava il super privé dal resto e Ted Kennedy si metteva a quattro zampe sotto i tavoli per annusare le “patatine” delle signore.

Alla fine di soppiatto entra in scena Andrè Shammah che rimane nell’ombra, non le piace intervenire sui libri, ma fa un’eccezione: “Quando sei di buona famiglia, ti porti dietro un sacco di pregiudizi… come se non meritassi la qualifica di scrittrice, di artista. Io che sono una persona che non dovrei avere pregiudizi, perché li ho subiti, ne ho avuto anche io uno… e ti chiedo scusa Carla. Il libro è bellissimo e sono orgogliosa di averlo presentato nel mio teatro”. E’ importante entrare in scena, ma ancora più importante è come uscire di scena, lo diceva Dario Fo. Un boato di applausi.

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