Partiti in cerca di un lavoro. Gli emigranti esistono anche in Italia. Vanno verso il nord del Paese, verso l’Europa, verso l’America. Lasciano la famiglia come a inizio Novecento, con una ideale “valigia di cartone”. Ecco alcune delle loro storie raccontate a valigiadicartone.ilfatto@gmail.com

Emigranti 2.0. È questo che siamo. I nostri nonni lasciavano le loro terre con valigie di cartone piene di timori e speranze. Speranze per un futuro migliore, per sé e per i propri cari.
Le nostre valigie sono più evolute, nuovi materiali e comode rotelle, ma le paure e i desideri che accompagnano ogni donna o uomo del Sud restano le stesse.

Nel 2003 ho lasciato il Molise, a 18 anni, per passare da una cittadina di 25mila abitanti ad una città di milioni di persone, Roma. Quando sono partita, sentivo e sapevo che difficilmente sarei ritornata. Ho studiato ingegneria da borsista, ma la borsa di studio spesso non basta e sono sempre di più i casi in cui i nonni intervengono, con le loro pensioni, per supportare gli studi dei nipoti. È stato anche il mio caso.

Il profondo amore e rispetto per i miei genitori ed i loro sacrifici economici e affettivi mi hanno dato la forza di laurearmi in 5 anni esatti e di resistere ad ogni debolezza e voglia di mollare tutto e tornare indietro, lì, dove c’era  casa mia. In questo walzer di sorrisi e lacrime mamma e papà ci sono sempre stati. Ho cambiato molte case, o meglio camere, ed ho condiviso il mio tempo ed i miei spazi (piccoli) con coinquilini sconosciuti, “terroni fuori sede” come me, alla ricerca di un posto migliore nel mondo.

Subito dopo la laurea ho trovato un lavoro. Non sono mai stata particolarmente ambiziosa. La mia famiglia mi ha insegnato e trasmesso valori semplici, genuini. Desideravo un lavoro stabile che mi consentisse di vivere serenamente e di poter dare questa serenità, soprattutto economica, ai figli che avrei avuto. La stabilità l’ho trovata, la serenità economica è ancora lontana. Sarei potuta partire, andare all’estero o a Milano, per guadagnare di più e rincorrere soddisfazioni professionali migliori, ma ho scelto di restare. Amo mamma e papà, sono ciò che sono grazie a loro e ho a cuore il loro presente e il loro futuro. I 200 chilometri di distanza che ci separano e che da 15 anni mi impediscono di godere a pieno del loro quotidiano sono sufficienti a tenermi ancorata a Roma. Coltivo il dolce pensiero che tra qualche anno, quando entrambi saranno in pensione, potrò portarli da me nella Capitale e riconquistare quella quotidianità che da anni ho perso e che mi manca come il primo giorno in cui partii.

Troppo spesso, a volte anche ossessivamente, penso alle generazioni future, a quello che troveranno, all’Italia che incontreranno, con troppi paesini e territori privati di ogni senso e radice. Oggi ci sono giovani che hanno affrontato i miei stessi sacrifici, provato i medesimi vuoti o lo stesso senso di impotenza, e non hanno avuto l’opportunità di scegliere di restare. Me ne preoccupo e provo ad occuparmene. Grazie a piccoli gesti di attivismo, volontariato e sana informazione lotto senza sosta per una riscoperta degli antichi valori e la costruzione di un Paese che sia su misura per bimbi, giovani, adulti, anziani. Solo tenendoci per mano, tutti insieme, possiamo sognare di donare un volto più luminoso al nostro Paese.

Morena Mainardi

Articolo Precedente

“Gli Usa mi hanno dato tanto, ma non la felicità. E nell’era della mobilità globale la vera sfida è tornare a casa”

next
Articolo Successivo

“Ho mia figlia alle Canarie e i nipoti a Londra. Ecco la globalizzazione, né bene né male”

next