Sono più di dieci anni che praticamente tutti i sabato mattina apri la biblioteca comunale, in un piccolo paese che ovviamente non ha i soldi per permettersi di pagarli, i bibliotecari. Sono più di dieci anni che altri aprono quella piccola biblioteca insieme a te, a volte in orari e giorni improbabili, a volte per nessuno, perché d’inverno può succedere che in quelle due ore non entri nessuno in biblioteca.

Sono più di dieci anni che passi una parte significativa del tuo tempo libero in mezzo ai libri pubblici, nel senso che sono libri che chiunque può prendere e leggere gratuitamente: per te (perché ti piace) e per gli altri (perché pensi che sia una cosa bella e importante tenere quella porta e quei libri aperti, metaforicamente e non). Sono più di dieci anni che attraversi dei periodi in cui quella porta rimane appena socchiusa e ti sembra di fare il minimo indispensabile per evitare che si chiuda e non possa entrare più nessuno; e altri periodi in cui è spalancata, entra ed esce e si ferma un sacco di gente e i libri e le parole – le idee, i sentimenti, le emozioni attorno a essi – si moltiplicano.

Forse è appena finito un periodo del primo tipo, un periodo da porta socchiusa, e ne sta iniziando uno del secondo tipo, da porta spalancata, perché sabato scorso la biblioteca era talmente aperta che i muri attorno non c’erano, era talmente aperta che il banco dei prestiti è stato catapultato fuori a trecento metri dall’ingresso, era talmente aperta che non era possibile né entrare né uscire fisicamente dalla biblioteca.

La biblioteca è finita in piazza, in strada: un banchetto con una tovaglia colorata, due seggiole e una trentina di libri di poesie. Sì, poesie: quei testi che vanno a capo più spesso del normale, che se leggi come leggi di solito a volte non le capisci, che spiazzano, annoiano, colpiscono. È difficile che lascino indifferenti. La poesia, che in Italia, dicono, non si legge, non si pubblica, non si compra.

C’erano dei cartelli colorati che dicevano “Biblioteca Comunale, Distributore di Poesie: una poesia può salvarti la giornata”, con il disegno stilizzato di una pompa di benzina collegata a un cuore. C’era una scatola di cartone con dentro arrotolati tanti foglietti a formare come un grosso fiore di carta e dentro ogni foglietto c’era stampata una poesia. C’era la gente che passava per caso o che veniva apposta a vedere cosa succedeva.

Abbiamo distribuito i foglietti con le poesie, ne abbiamo lette alcune ad alta voce, abbiamo prestato libri di poesia, abbiamo parlato, da dilettanti appassionati quali siamo, di poesia, così, a sorpresa, senza spiegare troppo, limitandoci a regalare quei foglietti e a descrivere questo assalto di poesia, abbiamo incontrato diffidenza, stupore, divertimento, interesse, entusiasmo, scetticismo, tenerezza. E tutti, o quasi, leggevano lì per strada, poesia: Montale, Sereni, Merini, Arminio, Candiani, Pozzi, Carver, Hikmet. Qualcuno si fermava, qualcuno leggeva camminando, quasi di nascosto, qualcuno tornava a commentare. La poesia, è finita in piazza, in strada, al bar, nei negozi di un piccolo paese, e per un paio d’ore, ne sono certo, a tratti ha cambiato la qualità dell’aria, della luce, dei suoni.

Ada, che sarebbe mia moglie (non si chiama Ada, si chiama Mati, ma Ada è un nome palindromo, scusate), due giorni dopo ha scritto questo:

“Una signora ha detto che sembrava scritta proprio per lei
Un bambino ne ha scelta una da portare alla mamma, se l’è fatta leggere – ha detto bella – e ha deciso di tenerla per sé e di prenderne un’altra per la mamma
Un signore andava troppo di fretta
Un giovane papà ne ha presa una poi è tornato a dire che proprio non gli piaceva e ne ha presa un’altra
Una mamma indaffarata che stava lavorando in bottega se ne è fatta leggere una e poi ha preso il libro in prestito
Due turisti olandesi, in inglese stentato, hanno detto che se le faranno tradurre da un amico
Un signore l’ha presa con aria di sufficienza poi la leggeva attraversando la strada
Una coppia ne ha prese due poi, visto che lei non aveva gli occhiali, lui un po’ in disparte gliel’ha letta ad alta voce e dicevano – che bella
Un baldo giovanotto ha detto – ci sta
Un uomo dall’aria un po’ stropicciata, al bar, diceva a un altro – ma è bella
Un ragazzo è tornato perché la sua parlava di morte e ne ha voluta un’altra
Una nonna ci ha regalato le verdure del suo orto
Una mamma che stava preparando il pranzo per il compleanno del figlio ne ha presa una per regalo
Tre persone hanno detto – no, grazie
Un marito l’ha presa  per la moglie
Una ragazza si è stupita nel leggere il nome del poeta
Un ragazzo ha voluto portane una alla madre
Un passante incuriosito ha detto che non ne leggeva mai e si è fatto consigliare un libro
Un ragazzino se l’è messa dietro all’orecchio e ne ha regalate agli amici
Una donna si è fatta reggere le buste della spesa per scegliere la sua
Qualcuno ha cambiato percorso intimorito
La barista l’ha messa nella tasca del grembiule
Un anziano ne ha recitata una per noi in spagnolo
Uno studente ci ha detto che era la sua preferita
Chi la leggeva prendendo il caffè, chi bevendo un aperitivo
Molti hanno sorriso e ringraziato”

Tutto questo è successo il 15 settembre scorso, il giorno dell’Assalto alla poesia, lanciato da Franco Arminio su scala nazionale. Arminio lo ha definito un assalto alla miseria spirituale che sta conquistando tutto.

A quella miseria secondo me, tutti insieme, abbiamo sottratto qualcosa per una mattina: grazie alla poesia abbiamo occupato, abbiamo abitato un piccolo spazio pubblico, che è un bel modo di riappropriarsi e di riconoscere i luoghi in cui viviamo e le relazioni tra persone di cui questi luoghi sono fatti; e abbiamo abitato e dato valore alla fragilità preziosa delle parole.

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Gubbio, un festival sui barbari di una volta e su quelli di casa nostra

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