È dove si interrompe la realtà, nella maniera più brutale e improvvisa possibile, che spesso inizia il cinema. È da quell’interruzione che riprende a narrare la storia, per far sì che un fatto, per quanto tremendo e ingiusto possa essere, non venga mai dimenticato. È un cinema che non ha bisogno di manierismi per raccontare una storia già di per se incredibile, priva di senso. Un cinema che si affida alla bravura di chi, per interpretare i personaggi, ha dovuto annullare se stesso, arrivando a una personificazione totale, a un’interpretazione che insinua la domanda nello spettatore: sto guardando un film o un documentario?

Era soltanto così che Alessio Cremonini, regista di Sulla mia pelle, poteva raccontare la storia di Stefano Cucchi. La pellicola, che ha inaugurato la sezione Orizzonti della scorsa Mostra del Cinema di Venezia, racconta infatti i giorni immediatamente precedenti a quel maledetto 22 ottobre 2009, il giorno in cui il giovane geometra di 31 anni muore dopo sei giorni di arresto per detenzione (e presunto spaccio) di stupefacenti. Insieme a lui, quello stesso giorno, moriva definitivamente la figura dello Stato, con lei quella delle forze armate e della sanità, in pratica si sgretolava ogni caposaldo in un cui poter credere in un Paese democratico.

Dopo lunghi anni di battaglie, indagini, perizie, processi e centinaia di testimonianze prese in carico, il nome di Cucchi riecheggia ancora oggi quando si parla di violenza gratuita da parte delle forze dell’ordine, o meglio, di omicidio di Stato. Nei panni di Stefano, nello strazio dei suoi ultimi giorni passati tra il carcere di Regina Coeli e il reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini di Roma, si è calato Alessandro Borghi, dimagrito più di 10 chili per poter interpretare al meglio il personaggio, che nei giorni immediatamente precedenti alla sua morte era arrivato a pesare 43 chili.

Un ruolo difficile, non soltanto per il peso del fatto di cronaca, ma per la complessità di una figura ambigua, introversa, dai tratti indecifrabili, come era Stefano Cucchi. Un film in cui tutti hanno dovuto lavorare in detrazione, tagliando via una parte di se stessi, a partire da un immenso Borghi, che per dare giustizia al suo personaggio ha dovuto estraniarsi completamente dalla sua posizione riguardo alla faccenda – prendendone in un certo senso le distanze – fino al regista, che ha lasciato spazio alla storia, in favore di una regia mai ingombrante, mirata a far immedesimare lo spettatore nei fatti narrati, arrivando dritto allo stomaco, al cuore. Come anche Jasmine Trinca, impeccabile nel rappresentare il coraggio e la determinazione di Ilaria Cucchi, la donna che dal giorno della scomparsa del fratello non ha mai smesso di credere nella giustizia, senza mai abbandonare la lotta per la ricerca della verità.

Si soffre insieme ai personaggi, lungo i 140 minuti di film il senso di impotenza vissuto dai protagonisti viene condiviso con lo spettatore, fino ad arrivare ai cartelli finali, che svelano la realtà per la quale il film diventa un documento necessario, che tutti dovrebbero vedere.

Soltanto nel 2009 infatti, in Italia furono registrati 172 decessi nelle carceri, per cause sospette. E per il caso Cucchi, che grazie a Ilaria non è finito nell’oblio come molti altri casi simili, la fine non è ancora scritta. Il Tribunale di Roma ha disposto il rinvio a giudizio dei cinque carabinieri imputati nell’ambito dell’inchiesta, per i tre che lo arrestarono, l’accusa contestata dalla procura è quella di omicidio preterintenzionale, mentre gli altri due sono accusati di calunnia e falso.

Se la giustizia farà il suo corso, chi ha ucciso Stefano Cucchi avrà la sua sentenza definitiva, ma per ora è importante che più gente possibile venga a conoscenza dei fatti realmente accaduti, perché già questa, anche se in minima parte, è una giustizia che noi tutti dobbiamo alla sua famiglia.

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