A cadenza semestrale la stampa internazionale ci informa che una qualche ricerca, ancora in stato larvale, è stata avviata al fine di monitorare o verificare i benefici di quella tal sostanza o di quell’altra. Parliamo di sostanze che fino ad oggi, nella vulgata generale, sono considerate demoniache: ovvero droghe illegali.

Eppure l’utilizzo di droghe per i più disparati motivi, sempre in termine di ricerca scientifica, è antico. Utilizzate e studiate durante le guerre, per infondere coraggio prima degli assalti, o somministrate a fini terapeutici per incidere sul livello empatico, elemento prezioso in ogni psicoterapia.

La letteratura c’è sempre andata a nozze. Forse la sperimentazione più nota, in merito all’acido lisergico perché oggi parliamo di una ricerca che su di lui concentra le attenzioni degli scienziati, investe due giganti del 900, che organizzavano degli incontri finalizzati alla assunzione di questo potente allucinogeno al fine di verificare le proprietà sulla mente umana. Parliamo del suo scopritore, Albert Hofman che insieme allo scrittore Ernst Junger passarono diversi e piacevoli pomeriggi assumendo LSD. Hofman fu sempre molto chiaro: sostanza pericolosissima che ma dal potenziale enorme ai fini di studio e di eventuale applicazione in medicina.

A distanza di 60 anni dall’ultima semiclandestina ricerca dello psicologo James Fadiman che già negli anni 60 aveva verificato il positivo apporto di bassi dosaggi di Lsd sulla psiche umana, si riaccende l’interesse per questa sostanza e con il finanziamento della Berkley Foundation, la quale da il via ad una ricerca con soggetti volontari in regime di autoamministrazione. Tralascio per non ammorbare il lettore le specifiche metodologiche improntate al “self-blinded” che in parole povere significa non avere contezza di quello che si assume, posto che le capsule possono contenere sia il principio attivo o non contenerlo.

La dicotomia di una società usa ad alternare precetti morali sulla pericolosità di certe sostanze con l’annuncio in cui si ricerca il dosaggio giusto per creare migliori condizioni di benessere alimenta l’approccio schizofrenico con cui la modernità tratta l’argomento droghe. Sostanze quasi sempre illegali anche quando, come nel caso della cannabis, i benefici a scopi terapeutici sono ormai innegabili e non più negati nemmeno dai più coriacei proibizionisti.

La ricerca farmacologica che nel corso degli ultimi 30 anni ha fatto balzi spaventosi infatti non riesce ad eludere una domanda che, spesso ci si pone: non è che si costruiscano, attorno a farmaci o sostanze, bisogni superflui? Anche la definizione del concetto di benessere non pare così pacifica come, troppo spesso si vuole fare credere. Una umanità perennemente felice, beata perché indotta da nuovi farmaci, è un bene o un male? Anche ammesso che fosse un bene, la ricaduta maggiore di tale benessere, andrebbe a beneficio dell’utilizzatore o di altri?

Se pensiamo che le ricerche dei primi anni 70 del Professor Fadiman sull’acido lisergico erano finalizzate alla produttività umana, quindi alla capacità di lavorare di più ed in condizioni di maggior benessere non sporge spontanea la domanda che tale benessere coniugato a più ore lavorative, sottrae tempo alle altre dimensioni umane a partire dall’ozio, anch’esse ed in maniera del tutto naturale, capaci di aumentare la percezione di stare bene con noi stessi?

Lungi da me qualsiasi ipotesi complottista rispetto ad oscuri disegni orchestrati da perfidi uomini, ma tale domanda ci assilla da almeno 60 anni. Da quando le case farmaceutiche, per pubblicizzare i prodotti oggetto di ricerche, intensificarono il ricorso a pubblicità che, con ogni probabilità, oggi sarebbero considerate ingannevoli. Le benziodaziepine, ad esempio, venivano pubblicizzate con l’immagine di una casalinga insoddisfatta a cui il rimedio miracoloso avrebbe ridato fiducia nella vita.

Di fatto sappiamo che l’applicazione pratica di molte di queste ricerche ha poi come risultato ultimo la diagnosi di nuove patologie che fino ad ieri patologie non erano considerate. L’esempio tra i più calzanti è quello della depressione minore. New entry dell’ultimo manuale diagnostico. Che un lutto familiare non rechi particolare allegria è cosa risaputa: che la relativa elaborazione, con l’aiuto delle reti amicali o familiari, possa essere sostituita da un farmaco mi ha sempre creato qualche dubbio.

Più in generale, la lettura che potremmo dare a ricerche finalizzate a renderci macchine sempre meno difettose, forse, investe ciò che è sotto gli occhi di tutti: più che la macchina è l’insieme entro cui la macchina è collocata che necessita urgentemente di ricerche e cure adeguate. E la rincorsa spasmodica verso una dimensione ideale di compiuto benessere, forse, denuncia la rottura di questo insieme.

Volendo favoleggiare, si può predire che il punto di congiunzione estremo di questa corsa progressiva sarà più che costruire robot sempre più efficienti, fare diventare lo stesso uomo, un robot.

Un uomo chimico con risposte immediate indotte dalla chimica. Il farmaco nato per alleviare le sofferenze si trasforma in sostanza che accellera l’omologazione ad immagine e somiglianza di ciò che, in un determinato contesto storico, è più funzionale al concetto di società.

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