Sono passati più anni dalla sua scomparsa di quelli della sua esistenza terrena. Il 12 agosto del 1988 terminava tragicamente il viaggio di Jean-Michel Basquiat. Tuttavia, la sua figura leggendaria si è fatta subito largo poiché il talento dirompente dell’artista newyorkese aveva già conquistato critica e ammiratori. Quando uno così muore giovane senza arrivare a 30 anni ci si chiede sempre che cosa avrebbe ancora potuto realizzare sopratutto in questi tempi di smarrimento che negli Stati Uniti e non solo coincidono con l’era Trump. Non arrivando alle porte degli anni Novanta, Basquiat non ha assistito a pezzi di storia che hanno sconvolto il mondo in maniera travolgente. Avrebbe certamente manifestato tutta la sua delusione, il suo disgusto, la sua angoscia per questi tempi che definiamo moderni, ma sono spesso più oscuri del Medioevo.

In un prezioso articolo pubblicato nel 1947 su Musica Jazz, il bravissimo Arrigo Polillo parlando del geniale Bix Beiderbecke scrisse parole che possono valere anche per Bascquiat “presi da zelo iconoclasta, molti critici hanno deciso che è venuto il tempo di separare la realtà dalla leggenda e di sottoporre ad una spietata revisione la figura del giovanottino (…) premuroso verso gli amici quanto incurante di se stesso e della propria salute; zelante e trasandato, generoso e modesto. (…) Ce n’è d’avanzo per farne una figura da romanzo. Si è esagerato, senza dubbio, nel mitizzare l’uomo, nel fare di lui quel ‘grand guy‘ tanto caro alla letteratura ebdomadaria statunitense, ma non si è esagerato affatto nel riconoscere in quell’uomo l’artista“. E i suoi assoli rimangono validi perché sono opere di un artista.

Un artista appunto come lo è stato Basquiat, morto come Beiderbecke a soli 27 anni. Eppure in quel breve passaggio ha compiuto assoli straordinari che lo hanno consacrato tra i geni della pittura e lo sarebbe stato anche nella musica poiché un vero genio non ha limiti. La sua vita si presta parimenti alle ragioni romanzesche e in effetti la cinematografia e i documentaristi gli hanno dedicato dei giusti tributi che ne hanno diffuso a livello mondiale la sua opera senza retorica e con la dovuta attribuzione di valore.

Del resto sono note le sue collaborazioni con artisti capaci di notare le sue doti superlative. Insomma, Basquiat si nasce. E lo ha capito benissimo Andy Warhol con il cui amore e odio si sono fusi in un rapporto artistico e umano produttivo e burrascoso al tempo stesso. Ma uno come Basquiat la propria rabbia la esprimeva attraverso le sue opere così come la sua ribellione. Ecco perché i suoi frammenti poetici, quelle annotazioni sui taccuini paterni sono stati poi “trasferiti” sui dipinti neo-expressionisti.

E poi c’è la strada; quella strada che di fatto lo ha condotto alla prematura fine, ma che è stata la principale palestra. Soprattutto dopo la separazione dei suoi genitori, episodio che deve averlo segnato più dei suoi stessi graffi divenuti graffiti firmati inizialmente come SAMO. Forse quei vagoni della metro D per Brooklyn raccontano pezzi di vita, di una vita fatta a pezzi dagli eventi. Come non accennare alla sua avventura musicale frutto di incontri di altissimo livello partendo da Madonna per arrivare a David Bowie; l’esperienza della sua rock band Gray lo colloca ancor di più nella completezza artistica.

La sua fine orrenda e in completa solitudine è ora compensata dal riconoscimento mondiale quale genio della Street Art nella quale la società viene descritta per quello che è: nuda e cruda. Spietata. Questo siamo diventati. Basquiat lo aveva già capito, nel suo breve tempo. Troppo breve per lasciare ancora un segno indelebile di protesta. Un graffitismo che avrebbe potuto testimoniare la tragedia dei migranti, dei nuovi schiavi, degli ultimi e degli anonimi di questo vecchio pazzo mondo.

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