È stato presentato nelle scorse ore il progetto “Mi riscatto per Roma, con il quale, attraverso un protocollo d’intesa firmato con la società Autostrade per l’Italia, circa 50 detenuti potranno uscire dal carcere per riparare le numerose buche delle strade romane. La sindaca Virginia Raggi ha parlato di “un modo per rendersi utili alla società e avviare un percorso di reinserimento”. Non è la prima volta che si sperimenta qualcosa di simile. Già nel marzo scorso alcuni detenuti avevano cominciato a lavorare al progetto “Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale”, dedicandosi alla cura del verde pubblico della Capitale.

Nonostante io creda fermamente nell’importanza che le persone detenute non trascorrano l’intero tempo della pena chiuse tra quattro mura ma vengano progressivamente reintegrate nella società attraverso percorsi che rendano sensato il periodo dell’espiazione, questo progetto – pensato sicuramente con le migliori intenzioni – non mi convince. E vi spiego il perché.

Uno degli insegnamenti basilari che ci arriva dal diritto internazionale è che la pena non deve consistere in nulla più di se stessa (cioè di quanto esplicitamente previsto dal codice penale come punizione per il reato commesso) e di quelle inevitabili conseguenze che essa si porta dietro. Se la pena è la reclusione, come conseguenza inevitabile non potrò ad esempio guidare liberamente la mia motocicletta, ma potrò invece leggere, andare a scuola, lavorare. Nessun diritto fondamentale deve perdersi se non quelli strettamente connessi alla pena da espiare. Come potremmo altrimenti pensare di recuperare alla società le persone che da essa si sono allontanate con la commissione del reato? Il lavoro è un diritto fondamentale. Ma il lavoro, così come pensato dal primo articolo della nostra Costituzione, è necessariamente retribuito. Altrimenti rischia di essere lavoro forzato. È vero, i detenuti accettano volontariamente di andare ad aggiustare le buche. Ma in una posizione di debolezza contrattuale quale quella in cui si trovano, chiunque lo farebbe. Il tempo della pena dovrebbe essere responsabilizzante e riprodurre per quanto possibile quella vita ordinaria alla quale le persone si spera ritorneranno. Il fine della pena è proprio questo. Ma non credo che un lavoro non retribuito, paternalisticamente inteso per far espiare al reo le sue colpe (che già sta pagando con la pena), possa davvero responsabilizzare.

Inoltre: non mi pare dignitoso quel che si è visto e si vedrà nelle strade romane. E la dignità umana è un limite che mai l’istituzione deve violare. Un gruppo di detenuti, vestiti in maniera uguale e identificabile, circondati da poliziotti penitenziari – che potrebbero invece restare nelle carceri a portare avanti il loro prezioso lavoro – è un quadro che evoca immagini poco nobili del passato.

Infine, fondamentale: il mercato del lavoro viene inevitabilmente inquinato da progetti di questo tipo. Certo, il Comune di Roma risparmia soldi facendo lavorare gratis i detenuti a riempire le buche. Ma detenuti che lavorano gratis, in cambio di un qualche giudizio positivo sull’andamento della loro pena, costituiscono una concorrenza al ribasso per i lavoratori liberi. Il rischio è che, di categoria in categoria, si aprano squarci di dequalificazione e deregolamentazione del lavoro salariato.

Le politiche carcerarie hanno bisogno di un retroterra culturale complesso per la loro delineazione. Sono tanti gli elementi che bisogna conoscere e tenere in considerazione. Le pur buone intenzioni del Comune di Roma e del Dap rischiano di avere non poche controindicazioni.

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