Sarà un lungo arrivederci più che un addio vero e proprio. La chiusura del quantitative easing della Banca centrale europea, ossia il programma di acquisto di titoli di Stato e obbligazioni, è strutturata per essere graduale e per non generare traumi. Perché, grazie al rinnovo dei Btp che vanno a scadenza, l’Eurotower continuerà di fatto ancora per diversi anni ad acquistare titoli italiani per circa 3,3 miliardi di euro al mese. Non solo: come spiegato da Mario Draghi, il programma potrà essere riattivato in qualsiasi momento se ce ne fosse la necessità. Ciò non toglie che la fine del Qe cambi le condizioni di mercato e renda più facile un aumento dei tassi di interesse su titoli di Stato ed obbligazioni e quindi un allargamento la differenza tra i rendimenti dei titoli di Stato tedeschi e quelli italiani (spread). Il tasso pagato da un Btp decennale è già passato dall’1,7% annuo di inizio maggio all’attuale 2,7%. Ipotizzando che lo spread, ora intorno ai 240 punti, si allarghi fino a quota 400 per un periodo prolungato, il costo aggiuntivo per lo Stato sarebbe di 4 miliardi il primo anno, 9 miliardi il secondo e oltre 13 il terzo. Quasi la cifra necessaria per finanziare una misura come il reddito di cittadinanza. Oltre alle ripercussioni sulle finanze pubbliche ci sarebbero poi conseguenze sui bilanci bancari e quindi sulle condizioni creditizie. Questo senza contare che, nel frattempo, la crescita della Penisola rallenta.

I numeri del bazooka – Dall’avvio del Quantitative easing, nel marzo del 2015, la Bce ha acquistato titoli di Stato dei paesi euro con durata da 1 a 30 anni per un valore di oltre 2mila miliardi di euro. Le quote sono state proporzionali alle dimensioni delle varie economie. Per l’Italia gli acquisti hanno raggiunto i 345 miliardi di euro (a fronte dei 485 della Germania e dei 396 della Francia). Per comprare i titoli la Bce ha creato moneta “dal nulla”, prerogativa delle banche centrali. Gli acquisti sono avvenuti per circa il 90% tramite le rispettive banche centrali, i titoli italiani sono quindi quasi tutti a bilancio della Banca d’Italia. La condivisione del rischio a livello di area euro è stata quindi molto limitata. Se i titoli di un determinato paese dovessero iniziare a perdere valore, le conseguenze sarebbero in larghissima misura a carico della sua banca centrale. Questa è stata la condizione posta dai paesi più solidi come la Germania per acconsentire all’avvio del quantitative easing. L’obiettivo del programma, è utile ricordarlo, non era l’intervento in eventuali situazioni di emergenza di singoli paesi ma quella di favorire una ripresa dell’economia e dell’inflazione. Obiettivi difficile da perseguire per una banca centrale attraverso strumenti di politica monetaria tradizionali, la cui azione è efficace quando si tratta di rallentare un’economia surriscaldata, meno quando si tenta di risollevare un’economia che langue.

Uscita graduale: i ricavi dei titoli che scadono saranno reinvestiti per comprarne altri – Per capire la portata di questo programma basti pensare che quando il Qe operava a pieno regime per ogni euro di nuove emissioni di titoli di paesi euro, la Bce comprava Btp, Bonos, Bund eccetera per 7 euro. L’ammontare degli acquisti mensili ha raggiunto gli 80 miliardi di euro e si è poi progressivamente ridotto a partire dell’aprile 2017. Prima a 60 miliardi, poi, dal gennaio 2018 a 30. Gli acquisti diminuiranno a 15 miliardi dal prossimo settembre per azzerarsi a dicembre. La presenza della Bce sul mercato sta quindi diventando via via meno “ingombrante” ma passerà ancora molto tempo prima che si azzeri del tutto. La banca centrale sta infatti interrompendo solo l’acquisto di titoli aggiuntivi rispetto a quelli già in suo possesso, ma continuerà a rinnovare quelli che arrivano a scadenza. Per fare un esempio se nel 2019 dovessero scadere Btp per 30 miliardi, la Bce incasserà i rimborsi e userà i fondi per comprare altri titoli italiani per lo stesso ammontare.

Oggi la durata media dei titoli di Stato in mano a Francoforte è di circa 9 anni. Nel caso italiano significa che, a spanne, da qui al 2027 ogni anno arriveranno a scadenza e verranno rimborsati titoli per 40 miliardi. La Bce continuerà quindi ad acquistare titoli italiani per circa 3,3 miliardi di euro al mese. Non solo. Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters Francoforte starebbe valutando di concentrare gli acquisti sui bond con le scadenze più lunghe e di rendere meno rigidi i criteri che definiscono le quote per i diversi paesi. Questo approccio avrebbe lo scopo di mantenere sotto controllo i costi per i finanziamenti. Reinvestire in titoli a lunga scadenza frenerebbe infatti i rendimenti di questi bond, che sono un punto di riferimento chiave per i costi a cui si finanziano governi, aziende e famiglie.

Più costi per lo Stato – Nonostante le accortezze messe in atto da Francoforte, la progressiva uscita di scena di un grosso compratore, che opera con criteri non legati al guadagno, ridurrà l’effetto calmierante su rendimenti e spread. Il criterio con cui verranno scambiati titoli italiani sarà d’ora in poi sempre quello con cui operano abitualmente gli investitori: vendere o acquistare bond che offrano un rendimento adeguato rispetto al rischio che presentano. In altri termini significa che se l’Italia viene percepita come più rischiosa, i rendimenti che dovrà offrire perché i suoi titoli vengano acquistati saliranno velocemente. Un assaggio di questa dinamica l’abbiamo avuto in questi ultimi due mesi. L’interesse di un Btp decennale è passato dall’1,7% annuo di inizio maggio all’attuale 2,7%. Viceversa nello stesso periodo il rendimento di un titolo decennale tedesco è sceso dallo 0,5 allo 0,3%. Interessi più alti significano in prospettiva maggiori oneri per le finanze pubbliche. Indicativamente un incremento dello 0,25% dell’interesse medio che lo Stato paga sui suoi titoli di Stato significa un esborso aggiuntivo di 3 miliardi di euro l’anno. E’ difficile fare stime precise ma l’Ufficio parlamentare di Bilancio ha calcolato che se tutti i rendimenti dovessero crescere di 100 punti base (ossia dell’1%) la spesa per interessi aumenterebbe di 1,8 miliardi nel primo anno, di 4,5 nel secondo e di 6,6 nel terzo, man mano che le nuove emissioni rimpiazzano quelle che arrivano a scadenza.

Se lo spread arriva a 400 le uscite aumentano di 4 miliardi l’anno – Immaginiamo che lo spread raddoppi rispetto ai valori attuali e si collochi intorno a quota 400 per un periodo prolungato e a causa di un incremento dei rendimenti dei nostri Btp. In questo caso il costo aggiuntivo per le nostre casse pubbliche sarebbe di 4 miliardi il primo anno, 9 miliardi nel secondo e oltre 13 nel terzo. La spesa complessiva per gli interessi si avvicinerebbe molto rapidamente agli 80 miliardi di euro rispetto agli attuali 68, livello raggiunto anche grazie al qe. In pratica l’onere aggiuntivo per gli interessi brucerebbe risorse sufficienti per finanziare misure importanti come, ad esempio, il reddito di cittadinanza.
Attualmente lo Stato italiano paga 70 miliardi l’anno di interessi sui suoi 2.000 miliardi di debito sotto forma di titoli di Stato. Circa 15 miliardi in meno rispetto al periodo precedente all’avvio del quantitative easing. In generale finanziarsi sta diventando più costoso per tutti, poiché gli interessi dei diversi prodotti finanziari si muovono sempre in maniera coordinata. Non a caso un grande gruppo come Atlantia ha annullato l’emissione di un’obbligazione da 2 miliardi di euro a causa dell’aumento degli interessi che avrebbe dovuto pagare agli investitori.

Banche in allerta, bilanci sotto pressione – Per come sono strutturati obbligazioni e titoli di Stato (gli interessi vengono corrisposti periodicamente in un ammontare fisso e prestabilito) il rendimento in termini percentuali sale se il prezzo con cui il titolo viene scambiato sul mercato scende, e viceversa. Se gli interessi salgono il valore del titolo si abbassa. Questo potenzialmente è un problema per le banche italiane che possiedono Bot e Btp per un valore di 340 miliardi di euro. In teoria se questi titoli vengono tenuti fino alla loro scadenza le oscillazioni dei prezzi non si traducono in perdite vere e proprie. Dipende anche da come le banche hanno scelto di classificare a bilancio i titoli acquistati. Tuttavia è indubbio che una significativa e prolungata perdita di valore metterebbe sotto pressione i bilanci delle banche e attiverebbe le attenzioni delle autorità di vigilanza. Con il tempo questo potrebbe tradursi in una minore capacità di erogare credito e quindi in condizioni meno vantaggiose per chi contrae mutui e prestiti.

Effetti positivi ma rischio bolle e aumento disuguaglianze – E’ difficile valutare i risultati conseguiti attraverso il quantitative easing ed è impossibile sapere cosa sarebbe accaduto se il programma non fosse stato attuato. Politiche monetarie di questo tipo sono state adottate dalla Bank of Japan, dalla Federal Reserve, dalla Bank of England solo in tempi recenti. E le loro conseguenze nel lungo termine nono sono del tutto chiare. L’inflazione europea è risalita al 2%, un livello ritenuto ottimale. L’economia si è ripresa seppur con ritmi non esaltanti e con differenze tra paese e paese. Prima o poi bisognerà però fare i conti con gli effetti collaterali di queste politiche monetarie. Un mercato con tassi artificialmente bassi favorisce ad esempio il formarsi di “bolle” con quotazioni gonfiate, tende a favorire chi ha ricchezze finanziarie e quindi ad aumentare le diseguaglianze e fa sì che si attenui la percezione dei reali rischi di molti investimenti. Smaltire la dipendenza dal denaro facile non sarà semplice. Molto dipenderà dell’abilità dello stesso medico che ha prescritto e attuato la cura.

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