«Quando nostro figlio ha compiuto cinque anni, i nonni gli hanno regalato il Nintendo. Già in quel momento abbiamo notato che il gioco lo prendeva moltissimo e che faceva fatica a staccarsi. Poi in prima media è arrivato il primo smartphone suo personale, è stato lì che è cominciato tutto». Giulio (nome di fantasia) oggi ha 13 anni ed è dipendente dal gioco da quando ne aveva dieci. Il cellulare è la sua ossessione ed è arrivato a giocare anche otto ore al giorno consecutive. Il rendimento scolastico è calato e ha forti sbalzi d’umore, è aggressivo e non accetta regole. «Dice sempre parolacce, ci ha detto che siamo dei genitori di merda, che abbiamo una casa schifosa… Quando provi a togliergli il telefono impazzisce, una volta ha rovesciato lo stendino ed è arrivato a dare un pugno in faccia alla mamma».

Quella di Giulio è una delle tante storie, raccontate dalla viva voce di genitori e psicoterapeuti, raccolte in un’inchiesta sulla ludopatia che colpisce bambini e ragazzini pubblicata su FqMillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez, attualmente in edicola con un numero dedicato alla droga e alle dipendenze. Il loro problema non è il gambling, cioè il gioco d’azzardo, ma il gaming, i classici videogiochi online, per esempio di combattimento, dove fra l’altro spesso è necessario pagare per comprare più vite o per potenziare il proprio personaggio, in modo da passare ai livelli successivi. Così la 12enne Laura è arrivata a spendere 500 euro in due mesi con la carta di credito della nonna: è uno dei tanti casi trattati da Giuliana Guadagnini, esperta di psicopatologie legate alla diffusione di internet e dei videogiochi, che ha accompagnato la giornalista Alice Facchini nell’inchiesta. In altri casi i soldi vengono scalati direttamente dal traffico telefonico.

In Italia sono  270 mila i ragazzi che nei confronti di internet hanno un comportamento “a rischio dipendenza”. Secondo la ricerca Espad 2018, nella fascia tra i 15 e 19 anni il 35 per cento degli studenti italiani si collega a internet almeno una volta al giorno per fare giochi di ruolo o di avventura, e il 15 per cento per giochi di abilità. Il 13 per cento ritiene di passare troppo tempo a giocare e più dell’8 per cento dichiara di diventare di cattivo umore quando non può farlo.

«La fidelizzazione avviene in tenera età», spiega Guadagnini. «È un avvicinamento innocuo, che però permane nel tempo. Quando i genitori non hanno la possibilità di badare ai figli li mettono davanti allo smartphone o al tablet: una volta il ruolo baby sitter era delegato alla televisione, ora ci sono i videogiochi».

Chi ci guadagna? Le grandi corporation di app e videogame stanno cannibalizzando i piccoli, costituendo così imperi dell’intrattenimento da miliardi di dollari. L’esempio più eclatante è quello della Tencent, una holding cinese che nel 2017 ha fatturato oltre 37 miliardi di dollari con alcuni dei videogiochi più diffusi al mondo: League of Legends, sviluppato dalla Riot Games, acquisita nel 2011 per quasi 400 milioni di dollari, o Clash Royale, sviluppato dalla Supercell, comprata cinque anni dopo per 8 miliardi e mezzo di dollari. Un’altra big del settore videogiochi è la Activision Blizzard, corporation statunitense che nel 2017 ha fatturato più di 7 miliardi di dollari e che sviluppa alcuni giochi molto popolari, come Candy Crush, World of Warcraft e Diablo.

Leggi l’inchiesta completa su “Fq MillenniuM” in edicola

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