Nel 1972, dopo la rottura tra Mosca e Pechino, Nixon e Kissinger si recavano in Cina per incontrare Mao, cambiando il corso della storia e della Guerra Fredda. Domani, a 46 anni di distanza e per la prima volta nella storia, un presidente americano in carica stringerà la mano a un membro della famiglia Kim, nel contesto di una guerra che va avanti da 72 anni e che ha lasciato sul campo milioni di vittime. Il meeting avrà luogo a Singapore, alle 9 del mattino (l’una del mattino in Italia) nell’isola di Sentosa al Capella Hotel, in un ambiente che – come descrive Simone Pieranni, inviato sul campo de Il manifesto – si sposa con le scenografie da reality del Trump di “The Apprentice”. Singapore è stata scelta per tre principali motivi. Primo, per come è stata in grado di gestire ordine e sicurezza, per esempio con il forum annuale Shengri-La. Secondo, perché ha buoni rapporti con entrambi i paesi e, terzo, perché è uno dei pochi al mondo ad ospitare un’ambasciata nordcoreana. I costi di gestione e sicurezza superano i 15 milioni di dollari. Parteciperanno oltre 2500 giornalisti e verranno stanziati oltre 5000 agenti su un totale di 13mila, senza contare le truppe militari e le navi da guerra disposte intorno alle isole. Anche il traffico aereo è stato limitato.

La città-stato è in fermento, le istituzioni locali si dichiarano onorate e l’opinione pubblica sembra concepirlo come uno dei più grandi eventi mai ospitati dal paese. Un meeting che, a prescindere, dall’esito sarà un passo importante. Nonostante infatti alcuni intervistati si dicano sfiduciati, soprattutto dall’ostilità mostrata da Trump durante l’ultimo G7, al tempo stesso altri, come Stanley Peck, dottore cinquantenne, si mostrano gioiosi del fatto che i due leader “almeno si stringeranno la mano e conosceranno l’un l’altro”. L’incontro formalmente metterà al centro i meccanismi di pace duratura e permanente nella penisola coreana, dalla denuclearizzazione al possibile ritiro delle 28,500 truppe statunitensi schierate lungo il 38° parallelo.

Il meeting sarà fondamentale per aumentare l’esposizione del giovane leader nordcoreano, per comprendere meglio la sua personalità ancora semisconosciuta e le sue mosse politiche. Questioni non di poco conto, in particolare dopo che in pochissimo tempo Kim è riuscito a passare dall’essere descritto come “un pazzo impulsivo” ad essere in grado di negoziare con il Sud e gli Usa, compiendo due passi storici nello stesso anno. Al tempo stesso sarà un’occasione per Trump di riprendere le redini della diplomazia in Estremo oriente. Tuttavia, il vero problema secondo gli analisti è che Trump vuole aumentare la presenza americana in Asia orientale mentre la Nord Corea non è realmente intenzionata al disarmo totale. Entrambi portano avanti la strategia della tensione, tirando la corda e rilasciandola.

Fino a pochi mesi fa, infatti, i due paesi parevano sull’orlo della guerra e fino a due settimane fa il meeting non avrebbe dovuto avere luogo, quando il consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump aveva liquidato l’ipotesi prevedendo per Kim la stessa fine di Gheddafi. L’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, ha dichiarato che sarebbe stato proprio il leader nordcoreano ad aver implorato perché il meeting si svolgesse. La verità è che la situazione è molto più complessa, ed è delicata non solo per Trump e Kim, ma anche per tutti gli attori che gli ruotano intorno, dalla Nato alla Cina.

Trump esce da un G7 dove ha mostrato sprezzo per i vecchi alleati, con i quali è sull’orlo di una guerra commerciale proprio come con Pechino, e ha attaccato il leader canadese definendolo un traditore. I rapporti col Giappone e altri paesi asiatici si sono incrinati soprattutto dopo l’abolizione del TPP, visto come regalo alla Cina, mentre la sud corea ha bypassato Washington, restaurando il dialogo con il Nord. Trump si trova dunque in un clima di isolamento e la sua imprevedibilità potrebbe giocare un ruolo fondamentale, impedendoci di fare previsioni accurate. Diversa la situazione per Kim, che potrebbe avere un piano ben preciso in mente per proporre un accordo di disarmo che gli assicuri di poter uscire dall’orbita di totale dipendenza da Pechino. Alcuni segnali, come la mancanza di qualsivoglia monumento che ricordi i 400mila cinesi caduti per difendere il Nord dagli americani, fanno intuire il disappunto storico di Pyongyang nel venire appuntato come il fratellino del gigante rosso.

“Se guardiamo la storia, Pyongyang non è sicura della Cina e ha una sorta di mentalità da vendetta” afferma Shen Zhihua, storico cinese della Nord Corea. “Il peggiore risultato per Pechino vedrebbe Usa, nord e sud corea fare gruppo, isolando la Cina”. Altri ricercatori temono invece che la fine del conflitto elimini il ruolo di cuscinetto svolto dal nord al confine cinese, sulla scia dello storico incontro Nixon-Mao, “se la Cina ha potuto farlo” affermano “perché non potrebbe la Nord Corea?”

I cinesi sperano di non essere oscurati. I loro quotidiani di partito sottolineano il ruolo ancora attivo di Pechino, confermato dal coinvolgimento logistico della Cina nel viaggio di Kim a Singapore, avvenuto a bordo di un aereo dell’Air China, utilizzato dal presidente cinese Xi Jinping. Il miglior esito per i mandarini, sarebbe senz’altro la conclusione formale del conflitto. Ma con l’eventuale ritiro delle truppe americane.

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