Alle tre del pomeriggio, la telefonata degli amici di Pomigliano, stralunati. Hanno appena appreso il contenuto della sentenza con la quale, dopo quattro anni di attesa (Tribunale del Lavoro, Corte d’Appello, Corte di Cassazione: il tempo disumano del giudizio) è stato emesso il giudizio definitivo sulla loro possibilità di esistenza, che consiste nell’avere ancora un lavoro. La Corte di Cassazione dà definitivamente torto ai cinque operai licenziati dalla Fiat per aver protestato contro i suicidi in fabbrica dei compagni cassintegrati, senza alcuna speranza di rientro; per aver gridato il proprio dolore in modo estremo, dopo tante inutili proteste, mettendo in scena davanti ai cancelli un rudimentale manichino dell’amministratore delegato appeso a un cappio: suicida, come la compagna di lavoro di cui quel giorno avevano accompagnato il funerale. Come il compagno che l’anno prima si era impiccato.

Mi mandano la sentenza, datata 14 marzo 2018 ma depositata in Cancelleria il 6 giugno, dà ragione all’azienda dichiarando legittimi i licenziamenti dei cinque lavoratori. La scansione sbiadita recita: «Repubblica italiana. In nome del popolo italiano, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, ha pronunciato la seguente sentenza sul ricorso proposto da FCA Italy Spa contro Mignano Domenico, Montella Antonio, Napolitano Massimo, Cusano Marco, Fabbricatore Roberto».

Mi sfilano davanti agli occhi i volti aspri, determinati, corrucciati, a volte disperatamente allegri, di questi cinque operai che non hanno voluto risarcimenti ma rientro al lavoro, dignità, memoria e rispetto per i compagni suicidi. Hanno dormito sulle panchine, si sono arrampicati sui tetti e sulle gru, hanno convinto delle proprie ragioni non solo scrittori e intellettuali – da Erri De Luca a Moni Ovadia, da Francesca Fornario ad Ascanio Celestini, che hanno firmato appelli per dire che gli operai hanno diritto alla protesta e alla satira anche quando questa è scabra e brutale – ma anche il sindaco di Napoli e la Corte d’Appello. Contro la quale, però, si sofferma puntigliosamente la sentenza della Cassazione, criticandola per «aver accolto un’inaccettabile dilatazione del diritto di critica […] e considerato, in modo del tutto apodittico, sussistente il nesso casuale fra i suicidi di due lavoratori e le loro determinazioni volitive nonostante la carenza di qualsivoglia prova al riguardo».

Secondo i giudici di Cassazione, i cinque operai avrebbero agito «comportamenti che compromettevano sul piano morale l’immagine del datore di lavoro», venendo meno all’«obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato».

Con la loro protesta, Mimmo e gli altri avrebbero «procurato ricadute di tipo “morale”, esprimendo posizioni palesemente offensive nei confronti dell’azienda mediante modalità eclatanti e ostentatamente provocatorie», e spostato la dialettica sindacale «su un piano di non ritorno che evoca uno scontro violento e sanguinario, fine a se stesso, senza alcun interesse ad un confronto con la controparte, annichilita nella propria dignità di contraddittore».

L’avvocato difensore dei cinque operai, Pino Marziale, è sconcertato. «Pur prescindendo dalla decisione, la sentenza sorprende per le sue omissioni motivazionali». Certo quel concetto di “morale” virgolettato è oscuro e problematico, come lo è l’evocazione di “scontro sanguinario”.

Nemmeno due ore dopo, i cinque operai indicono un presidio davanti alla casa del neo ministro del Lavoro Luigi Di Maio, a Pomigliano. Mimmo Mignano tenta di incatenarsi, ma quando la Polizia impedisce con forza lo svolgersi della manifestazione, rimuovendo gazebo e striscioni, reagisce gettandosi in testa della benzina. Ora è in ospedale, dove è stato portato a forza da operatori del 118, con lesioni agli occhi.

La sentenza ratifica una ratio secondo cui non conta la sofferenza dei deboli ma quella del padrone, in cui non si protegge l’onorabilità dei suicidi ma quella della controparte, indipendentemente dall’immane disparità del rapporto di forza. Anno dopo anno, è stata intaccata la fondamentale funzione esercitata fin dal dopoguerra dalla disciplina del diritto del lavoro: quella di bilanciamento dello squilibrio costitutivo del rapporto di forza fra imprenditore e dipendente. Privati persino del diritto di protestare, di gridare il proprio dolore e offesa, cosa lo Stato intende lasciare ai suoi cittadini cassintegrati, licenziati, disoccupati, oltre all’abisso dei gesti autolesivi?

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