La stanchezza per una novantina di giorni affogati nel confusionismo e nei secondi fini sottotraccia, costellati da furberie iper-spregiudicate e puerili ingenuità, non dovrebbe esimere dalla presa d’atto delle contraddizioni/giravolte che ne emergono; immortalate dalla rituale foto di gruppo del nuovo governo, in cui l’unico elemento che accomunava il preponderante gruppo dei maschietti erano i loro pantaloni che “cadevano” male (con l’inelegante effetto a sbuffo sulle rispettive calzature): il presidente Sergio Mattarella ha suscitato un vespaio per un ministro anti-euro per poi bearsi di ritrovarne due (l’originale Paolo Savona agli Affari europei e il suo clone Giovanni Tria a quelli economici); il neo vice presidente Luigi Di Maio, che per poter partecipare all’apericena di venerdì scorso al Quirinale con l’abitino della festa (e salvare pro tempore la ghirba presso i suoi) accetta di ingoiare il non ingoiabile, da un ministro già consulente di Brunetta ed estensore dei programmi di Forza Italia a un suo collega che si è salvato dai tribunali che lo processavano per atti compiuta da presidente Impregilo solo grazie alla prescrizione assicurata dalla berlusconiana legge Cirielli (e gli standard etici M5S?); il neo vice presidente Matteo Salvini che liquida “non siamo al mercato” la marcia indietro del co-equipier che, sempre scarso in geografia, confondeva la Washington degli impeachment con la sceneggiata napoletana, e poi s’inerpica sulla poltrona ministeriale per assecondare la propria bulimia da annessioni elettorali (trumpianamente rinominate “Italy first”); un premier servitore di due padroni come Arlecchino, il cui tratto conclamato di modernità culturale è la devozione campanilistica per un frate di Pietrelcina, icona della più retroversa religiosità contadina.

Dove si possano scorgere tratti di novità in questo quadro, allo scrivente non è dato capire. Non certo un programma, denominato “contratto” come scappellamento al presunto up-to-date del privatismo Neo Lib, che contiene soltanto ammiccamenti per le rispettive tifoserie. Il Di Maio che parla inglese lo definisce “alla tedesca”. Cosa ci sia dell’odiata Germania (alibi per tutti i cultori del complottismo lamentoso per i nostri guai) nel documento, anche in questo caso non è dato sapere. Semmai il tratto di politica Made in Deutschland è la “der Grosse Koalition” tra Lega e 5S su cui si fonda l’attuale assetto governativo, speculare a quanto si è faticosamente realizzato a Berlino, ora e più volte in passato. Un accordo temporaneo tra forze politiche egemoni per superare un’impasse o procedere alla rispettiva legittimazione.

Dunque, la fine del bipolarismo Forza Italia – PD/DS/PDS, su cui abbiamo (malamente) campato negli ultimi vent’anni, ora viene soppiantato da un analogo stato nascente bipolare; che vorrebbe giustificarsi sostituendo le vecchie segnaletiche destra/sinistra con le vaghezze tipo nuovo vs. vecchio, popolo contro Palazzo, i più contrapposti ai meno. Pura sociologia d’accatto a uso propagandistico elettorale.

Semmai il problema è che – al di là delle convergenze temporanee e dei tatticismi – le Grandi Coalizioni sono delle ammucchiate di scopo, il cui arco temporale è limitato al ripristino di condizioni competitive tra i contraenti. E se l’ambiguità giova a Salvini, coprendo l’essenza reale del suo partito (un’accozzaglia valligiana di reazionari) e i suoi disegni occultati nella coltre demagogica (l’accaparramento di potere), il giorno in cui i Cinquestelle si daranno una guida politica meno sprovveduta dell’attuale, capiranno che le proprie sorti sono del tutto alternative a quelle dell’odierno socio. E dovranno iniziare a differenziarsi, pena l’usucapione da parte della Lega. Una presa d’atto che non dovrebbe tardare prima delle elezioni europee 2019. Che potrebbe essere anche la data di scadenza dell’esperimento giallo-verde con striature di nero.

Dunque un’implosione, non certo un ritorno in scena dei rinominati “repubblicani” sotto la guida del muscolare (?) Gentiloni e del Churchill de noiantri Calenda.

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