Lo confesso: sul reddito di cittadinanza ho cambiato idea. Sono sempre stato scettico sull’ipotesi di un sussidio universale per tut-ti i bisognosi, soprattutto in un Paese dove i furbi godono già di mille vantaggi, l’evasione è un fenomeno di massa, i controlli sono costosi e poco efficaci, le disuguaglianze lampanti e la burocrazia così poco efficiente da rendere irrealistica la prospettiva di pagare ogni mese una somma a milioni di italiani che rispettano alcuni requisiti da verificare periodicamente.

Non mi ha mai convinto anche perché da strumento che dovrebbe garantire protezione e sicurezza rischia con grande facilità di diventare una gabbia, nonostante la buona fede dei proponenti: chi si abitua a ricevere dallo Stato un reddito per il solo fatto di essere cittadino può perdere ogni incentivo a cercare un altro lavoro o a tornare a studiare per sviluppare nuove competenze. In Italia abbiamo sempre avuto dei sussidi nati con le migliori intenzioni – come le pensioni di invalidità e gli assegni di accompagnamento che costano 16 miliardi di euro ogni anno – che sono poi spesso degenerati in strumenti di mero assistenzialismo, soprattutto nel Mezzogiorno.

Il Movimento 5 Stelle ha avuto il grande merito di imporre la questione nel dibattito pubblico, ma le sue proposte – che esamineremo nel dettaglio nel libro Reddito di cittadinanza che esce venerdì 18 per le edizioni Paper First del Fatto Quotidiano – sono sempre state così incerte nelle coperture finanziarie da sembrare non realizzabili, sempre circondate dal sospetto di essere soltanto la promessa di distribuire soldi a pioggia. Eppure ho cambiato idea sul reddito di cittadinanza. Per tre ragioni.

La prima: la crisi iniziata nel 2008, ormai un decennio fa, ha colpito in modo molto diseguale. Le persone più fragili, si è visto in questi anni, sono anche quelle meno protette da un sistema di welfare categoriale e diseguale, che continua a tutelare molto più i lavoratori dipendenti che gli autonomi, i pensionati rispetto ai pensionandi troppo vecchi per lavorare e troppo giovani per andare in pensione, gli anziani a scapito dei giovani, gli uomini molto più che le donne. Ci sono così tante nuove forme di povertà, improvvise e persistenti, che è impossibile immaginare ammortizzatori sociali e sussidi tali da coprire tutte le storie individuali, tutti i percorsi professionali o umani. Meglio uno strumento universale, generalizzato, semplice, prevedibile nelle modalità di accesso e nell’importo a cui si ha diritto. Almeno riduciamo l’incertezza sul futuro che rende ancora più insopportabile un presente già difficile.

La seconda ragione che mi ha fatto cambiare idea: la velocità del cambiamento tecnologico. Tutti noi siamo circondati da persone che se perdessero il lavoro che svolgono da una vita o anche solo da pochi anni non ne troverebbero mai uno simile, per tutele o stipendio. Le guardiamo con compassione e timore ma fatichiamo spesso a riconoscere che anche i nostri lavori sono a rischio. Robot e algoritmi distruggeranno prima i lavori pesanti, poi quelli ripetitivi a basso valore aggiunto e infine quelli intellettuali. Non sparirà tutto, certo. I migliori ce la faranno sempre. Ma la qualità di una democrazia si misura dalle tutele e dalle possibilità che offre ai mediocri, ai senza talento, a chi è nato nella famiglia sbagliata, senza libri in casa, a chi sa che la “meritocrazia” premia sempre un altro, lasciando lui senza nulla. In questa crisi permanente che ci attende – che porterà tante opportunità ai pochi all’avanguardia, ma con alti prezzi sociali da pagare per i molti rimasti indietro – una rete di protezione quasi serve a tutti. O meglio, a tutti quelli che non hanno ri-sparmi e competenze sufficienti per salvarsi da soli.

La terza ragione che mi ha fatto rivalutare il reddito di cittadinanza è la decisione del governo Renzi di assegnare 80 euro mensili a lavoratori dipendenti che guadagnano più di 8.174 euro all’anno ma meno di 26.600. Si è molto discusso dell’efficacia di questa misura, se sia riuscita o meno a stimolare i consumi. Ma un dato è certo: è stata fatta. Un gigantesco intervento di redistribuzione della ricchezza che vale 10 miliardi all’anno, ogni anno dal 2014 in avanti (è una misura “strutturale”). Quindi si possono fare interventi ambiziosi, con cifre consistenti. Quella misura è andata alla parte bassa del ceto medio, ma non agli ultimi. Gli “incapienti”, quelli che non guadagnano abbastanza neanche da pagare le tasse, non hanno visto un euro. Idem gli autonomi, che con le loro fragili partite Iva avrebbero avuto bisogno di un aiuto assai più di chi ha contratti stabili. Ed è stata una misura iniqua, abbiamo sussidiato le mogli casalinghe di ricchi avvocati o banchieri ma non le madri single costrette a lavorare in nero. Gli 80 euro non considerano il reddito familiare ma quello del singolo individuo e neppure la sua situazione patrimoniale complessiva. Con la stessa cifra sarebbe stato – ed è tuttora – possibile sradicare la povertà assoluta in Italia, sottrarre all’indigenza chi è davvero in fondo alla scala sociale.

La lezione di quella scelta portata avanti con tanta determinazione dal governo Renzi è che aiutare chi è in difficoltà è possibile. È stato scelto, invece, di dare i soldi a chi era più incline a votare il partito responsabile dell’intervento. Quindi, quando qualcuno dice che è impossibile trovare i miliardi necessari per il reddito di cittadinanza, sta mentendo. È una scelta politica. In Italia, come vedremo, uno strumento molto simile al reddito di cittadinanza esiste già. Si chiama REI, Reddito di Inclusione, costruito durante il governo Renzi e reso operativo dal governo Gentiloni, a partire da gennaio 2018. Ora si tratta di farlo funzionare e di aumentarne la dotazione finanziaria. Non si può dare da un giorno all’altro un sussidio di 780 euro al mese a 10 milioni di italiani, come forse pensano alcuni di quelli che hanno votato Movimento 5 Stelle e come denunciano tutti i critici per sostenere che, quindi, nulla è possibile. Invece non solo è fattibile, ma anche auspicabile che la lotta alla povertà, ora finalmente in cima all’agenda politica, diventi la priorità nelle scelte di politica economica. Con un graduale ma deciso aumento delle risorse e un monitoraggio costante di come vengono spese, raggiungere l’obiettivo di cambiare la vita alle persone in povertà assoluta è realizzabile nel giro di qualche anno.

Nel libro Reddito di cittadinanza, che trovate in edicola e in libreria o in-book, è organizzato così: partiamo con la storia di un’idea, quella che si possa distribuire un reddito a tutti cancellando la povertà, un’idea che ha avuto molti nobili avvocati e, di recente, viene presa molto sul serio in tutto il mondo. Poi vediamo chi ci ha provato, dall’Alaska alla Finlandia, per capire quali sono stati i risultati e quanto la realtà sia simile e quanto diversa dall’idea originale. Arriviamo così all’Italia. In due capitoli seguiamo la strana evoluzione delle politiche contro la povertà nel nostro Paese che hanno la peculiare caratteristica di escludere quasi la metà dei più poveri che ne avrebbero bisogno. Poi passiamo all’evoluzione più recente, durante il decennio della Grande Crisi, con il tentativo di arrivare anche nel nostro Paese a un sussidio universale. E infine esaminiamo la proposta del Movimento 5 Stelle, come funziona, quanto costa e se (e come) è realizzabile.

Di reddito di cittadinanza si è parlato molto in questi anni. Lo scopo di questo libro non è fare propaganda a favore o contro, bensì offrire a tutti numeri e argomenti perché questo dibattito prosegua nel modo più informato possibile.

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