di Franco Valenzano

Tre mesi fa, esatti. Il 25 gennaio scorso, ore 6.40, stazione di Treviglio al binario 7, una gelida alba.
Ero ancora inconsapevole del disegno a tinte oscure che il destino aveva tracciato per me. Un posto in una carrozza del treno 10452, quello di ogni mattina. Oggi rinominato “Il Maledetto”.  Da dieci giorni vi salivo in compagnia della mia stampella. A risparmio di un ginocchio malmesso, inoperabile a causa di una doppia razione quotidiana di fluidificatori del sangue, a fronteggiare i rischi legati ai postumi di una fresca angioplastica coronarica, indesiderata donatrice del titolo di “Cardiopatico ischemico cronico”.

Quel macabro disegno mi dipinse nella terza carrozza. Quella accartocciatasi intorno al palo dopo averne abbattuti due. Quella della polvere acre che farà tossire a lungo. Quella delle urla, dei pianti disperati e delle lunghe lacrime mute. Quella di una figlia che chiama e invoca ripetutamente una madre, invano. Quella di una donna rimasta artigliata, con mezzo busto fuori da una finestra inusualmente rivolta al cielo. Quella di una cinghia stretta intorno a una gamba lacera. Quella dalle pareti esterne disarticolate, tinte del rosso di un’anima spezzata. Quella che pare uscita dalle lunghe grinfie di un immenso, poderoso, gigante infuriato.

Quella che prende vita di notte e torna a insediare i nostri sonni con il suo assordante, inquietante, sferragliare scomposto,  lanciandosi in innaturali vertiginose corse che nulla hanno a che fare con i vacui risvolti, né tantomeno il lieto fine, di un otto volante. E’ apparsa trasfigurata in un container da trasporto merci. Ove noi umani eravamo quest’ultime. Cadeva orizzontale dall’alto, come calata da un aereo.  Dal suo interno riuscivamo a scorgere il suolo venirci inesorabilmente e rapidamente incontro (i poteri creativi della mente in libera uscita notturna).

Ridicolo l’assurdo tentativo di spiccare un salto verso l’alto una frazione di secondo prima dell’impatto, convinto che così l’avrei scampata.  La signora “Terza Carrozza” è molto friendly. E ti accompagna anche durante il giorno. Avverti la sua presenza  in alcuni suoi luoghi preferiti: In auto: ti impone di usare in maniera lieve il pedale dell’accelleratore. Spesso a scapito di chi segue, che finisce per sorpassarti imprecando. In ascensore: ove il suo respiro gelido sul collo rende davvero poco accogliente la cabina, da cui non vedi l’ora di uscire. Ma ogni volta sai bene che devi(!) entrarci.

In testa: gioca con carte truccate contro la tua concentrazione, sua avversaria prediletta. Le rimescola continuamente in maniera magistrale e quest’ultima spesso si smarrisce e finisce per perdere indecorosamente la partita.

E’ in corso una battaglia con l’uso di un’arma che dicono utile a rarefare sempre più questa presenza. Si chiama Emdr. Una tecnica psicoterapica che dovrebbe consentire di vincere la guerra. Vedremo. Per ora ho chiesto espressamente, all’ultima visita di controllo, di tornare al lavoro. Il 18 aprile sono rientrato. Non volevo diluire ancora i tempi di un ritorno, per timore che le difficoltà sarebbero cresciute in maniera direttamente proporzionale a questi ultimi.

Risalire su un treno, infatti, non è stato facile. Ad una settimana dalla ripresa provo ancora forte disagio. La soglia di percezione dei rumori,  dei sobbalzi  è divenuta oltremodo sensibile. Basta molto poco per lanciare il segnale di allarme interno. Per non parlare della velocità. Un tempo perfino desiderata, addirittura consolidata fra le certezze di esperienze troppo poco vissute da un pendolare ultradecennale. Oggi, un autentico nemico da temere. Sono passati ben tre mesi. Sembra ieri. Non sarà uno schiocco di dita. La lotta contro sé stessi  è sempre la più lunga e la più ardua da vincere.

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