E’ il giorno in cui Luigi Di Maio, capo politico del M5s, ha chiuso uno dei suoi due forni. La strategia del doppio fronte per arrivare a un governo “del cambiamento” dopo 50 giorni si è infranta sulla Lega e sul centrodestra, coalizione che per paradosso è riuscita a rimanere unita pur essendo divisa su molte questioni (a partire dall’alleanza con i Cinquestelle). Non è stato Di Maio a rompere con Matteo Salvini, ma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a forzare la mano, a dare il mandato esplorativo al presidente della Camera Roberto Fico e a dire che il confronto infruttuoso, super-tattico e un po’ strumentale tra M5s e Lega può fermarsi qui perché il tempo è scaduto. Ed è stato Mattarella a spostare la trattativa dalla parte opposta, dalla parte del Pd. Di Maio, scrive sul Blog delle Stelle, ci sta: “Io accetto la richiesta del capo dello Stato e presto incontrerò il presidente della Camera per valutare la possibilità di questo percorso, visto e considerato che dall’altra parte non hanno voluto ascoltare i loro stessi elettori che chiedevano a Salvini di fare questo passo”. Il Pd non è altrettanto granitico, deve fare ancora i conti con i propri fantasmi. Martina, il segretario reggente, dice che se il M5s la finisce con le ambiguità (cioè guardare al M5s e al Pd), il dialogo può partire, ma c’è una parte consistente del partito (tra cui il presidente Matteo Orfini) che assicura che le distanze sono incolmabili.

L’addio di Di Maio a Salvini: “C’ho provato”
Di Maio scrive una sorta di lettera d’addio a Salvini, con il quale finora aveva collaborato soprattutto per la composizione delle cariche istituzionali. Il leader dei Cinquestelle dice che ha capito che “Salvini non vuole assumersi responsabilità di governo. Perchè sinceramente non riesco proprio a capire come mai preferisca stare all’opposizione per il bene dei suoi alleati, invece di andare al governo per il bene degli italiani. E dovrà darne conto a tutti gli imprenditori, pensionati, professionisti, giovani che lo hanno votato per vederlo al Governo e invece ha reso il loro voto ininfluente. Non si dica che non c’ho provato fino alla fine, adesso buona fortuna”. Viceversa con il Pd, spiega di Maio, “non sarà un’alleanza: voglio dirlo chiaramente ai nostri attivisti: quello che valeva per la Lega, vale anche per il Pd. Le condizioni non cambiano: vogliamo un contratto di governo“. D’altra parte, aggiunge, “il nostro programma non è nè di destra nè di sinistra, ma di puro buonsenso e non siamo disposti a rinunciare i nostri valori. Per l’Italia è un’occasione storica per fare quello che si aspetta da 30 anni e io non ho nessuna intenzione di perdere questa opportunità straordinaria”.

Martina: “Ok al dialogo”, ma i renziani scaldano i motori
E il Pd? La situazione è un po’ meno chiara. Da una parte c’è la linea ufficiale pronunciata dal segretario reggente Maurizio Martina: “Ci confronteremo con il presidente Fico con spirito di leale collaborazione secondo il mandato conferitogli dal presidente Mattarella – dice – Lo faremo con serietà e coerenza a partire da una questione fondamentale e prioritaria: la fine di ogni ambiguità e di trattative parallele con noi e anche con Lega e centrodestra. Per rispetto degli italiani, dopo 50 giorni di tira e molla, occorre su questo totale chiarezza”. Ma da quelle parti le acque sono tutt’altro che cristalline.

Basti pensare che il mandato esplorativo si trovava  solo da pochi minuti nelle mani di Fico e  i renziani erano già partiti a testa bassa: sulle agenzie, su facebook, su twitter. I peones come Alessia Morani, Andrea Marcucci, Davide Faraone, Dario Parrini, Michele Anzaldi. Ma anche e soprattutto il presidente del partito, Matteo Orfini: “Eravamo, siamo e resteremo alternativi ai Cinquestelle per cultura politica, programmi e idea della democrazia”. Uscite che avevano provocato la reazione di Francesco Boccia, esponente della minoranza del partito: “Esprimere giudizi sulla linea che dovrà tenere il Pd subito dopo le decisioni di Mattarella e senza attendere l’incontro istituzionale tra il presidente Fico e la delegazione del partito è grave e irrispettoso verso le più alte istituzioni dello Stato”. Le minoranze, dice, in nome dell’unità sono state fin troppo pazienti: ora serve una direzione nazionale del partito.

Il braccio di ferro interno al partito
Resta che per poter formare un governo con i Cinquestelle, il Pd deve essere compatto, altrimenti non si raggiunge la soglia della maggioranza in Parlamento. Ogni accordo passa da Matteo Renzi. Quell’intesa secondo alcuni potrebbe prendere la forma di un appoggio esterno, anche perché la base democratica sarebbe contraria a un’intesa politica, secondo altri passerebbe da un impegno nel governo. In ogni caso, dicono fonti di AreaDem (la corrente di Dario Franceschini), non ci si può sedere al tavolo con Fico ponendo veti, quindi così come era inaccettabile il “no” iniziale di Di Maio a un Pd de-renzizzato, allo stesso modo non si può iniziare a dialogare dicendo no a Di Maio presidente. Non è questa la discriminante, affermano i renziani, convinti che anche un passo indietro dalla premiership di Di Maio – magari in favore dello stesso Fico o di un nome terzo – non aiuterebbe a superare le distanze tra i due partiti, ritenute “insormontabili“. Quelle distanze, così come le divisioni tra gli stessi Cinque stelle, emergeranno – sono persuasi – anche al tavolo di Fico.

I “governisti” sottolineano però i passi avanti fatti rispetto all’iniziale Aventino e assicurano che lo stesso fronte renziano non sarebbe granitico, come dimostrerebbe la convinzione espressa da Graziano Delrio che si debbano sentire gli iscritti su eventuali accordi, magari con un referendum. La strada è ancora lunga: da Renzi, cui fa riferimento la maggioranza del partito, i dialoganti si aspettavano l’inizio di una interlocuzione informale con i Cinque stelle per preparare il campo, ma questa interlocuzione non c’è mai stata. Perciò ora il tentativo sarebbe portare il dibattito nel partito, a partire dalla direzione che potrebbe essere convocata dopo il primo colloquio con Fico.

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