Nella storia infinita dell’Ilva di Taranto si torna a parlare di valutazione di impatto ambientale, valutazione di impatto sanitario e valutazione di danno sanitario. Più precisamente, effettuare queste valutazioni sarebbe tra le proposte del Comune di Taranto e della Regione Puglia in merito alla bozza di accordo di programma per la realizzazione delle misure e delle attività di Tutela ambientale e sanitaria. È difficile non essere d’accordo, in generale, con questa proposta.

C’è solo una perplessità. Il siderurgico di Taranto di valutazioni di danno sanitario ne ha già avute due, effettuate dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) ai sensi della legge regionale n. 21 del 2012.

La prima nel 2013, esclusivamente dedicata allo stabilimento in questione; la seconda nel 2015, più generalmente relativa alla “Area di Taranto – Stabilimenti Ilva – Eni – Cisa – Appia Energy”. Entrambe dalle conclusioni assai simili tra loro.

Nel primo caso, l’Arpa scriveva: “La valutazione del rischio cancerogeno inalatorio prodotto dalle emissioni in aria dello stabilimento Ilva di Taranto ha evidenziato, sia per il quadro emissivo 2010 che per lo scenario successivo all’adempimento all’AIA, una probabilità aggiuntiva di sviluppare un tumore nell’arco dell’intera vita superiore a 1:10.000 per una popolazione di circa 22.500 residenti a Taranto (situazione precedente all’AIA) e per una popolazione di circa 12mila residenti a Taranto (situazione post‐AIA).”

Nel 2015, l’epilogo dello studio era il seguente: “La valutazione del rischio cancerogeno inalatorio delle emissioni in atmosfera per lo scenario 2016, per gli stabilimenti Ilva, Eni, Cisa e Appia Energy nell’area di Taranto evidenzia un numero di circa 14mila persone residenti a Taranto per le quali, ipotizzando un’esposizione costante alle concentrazioni modellizzate per 70 anni, la probabilità aggiuntiva di sviluppare un tumore nell’arco dell’intera vita è superiore a 1:10.000”.

Quelle ancora più significative, però, erano le conclusioni “operative” dei due rapporti; di fatto, erano indicazioni che Arpa forniva al suo Ente di riferimento, ossia la Regione Puglia. E, in questo caso, esse non erano simili: erano identiche. Si riportano, quindi, solo quelle della Valutazione danno sanitario (Vds) del 2015: “Risulta, perciò, confermata la criticità dell’area di Taranto di cui agli artt. 3, 4 e 5 della legge regionale 21\2012, con le previste conseguenze normative a carico delle aziende che si trovano nell’area suddetta”.

In chiusura, due parole sulle “conseguenze normative” (solo le più significative) previste dalla L.R. 21\2012, cui fa riferimento Arpa.

L’art. 3 prevede che “ove il rapporto VDS evidenzi criticità, gli stabilimenti di cui all’articolo 1, comma 3, devono ridurre i valori di emissione massica in atmosfera degli inquinanti per i quali il rapporto VDS ha evidenziato criticità”.

L’art. 5 sancisce: “Nell’ipotesi di cui agli articoli 3, 4 e 5, comma 1, entro trenta giorni dalla data di pubblicazione del rapporto VDS sul Bollettino ufficiale della Regione Puglia, gli stabilimenti obbligati alla riduzione dei valori di emissione presentano alla Regione Puglia un piano di riduzione da attuarsi entro i successivi dodici mesi. [….] In caso di mancata presentazione del piano di riduzione, la Regione Puglia diffida il soggetto obbligato ad adempiere entro trenta giorni; in caso di inottemperanza, l’Autorità sanitaria dispone la sospensione dell’esercizio dello stabilimento.”

A meno che chi scrive non si sia perso qualche passaggio, non risulta che lo stabilimento Ilva di Taranto sia incorso in particolari “conseguenze normative” previste dalla legge regionale in seguito alle VDS del 2013 e 2015, nonostante le sollecitazioni dell’Arpa. Se così è, è il modo migliore per svilire – secondo un costume limpidamente italico – anche uno strumento potenzialmente assai utile come le valutazioni ambientali e sanitarie. Se una valutazione, di impatto o di danno, viene effettuata e fa emergere criticità, più o meno pesanti, dopo deve “accadere qualcosa”.

Di inquinamento si muore, in modo seriale; di Ilva, a Taranto, si muore, in modo altrettanto diffuso: possiamo ormai darli come fatti notori, per i quali non si pone più alcuna questione di onere della prova. Men che meno occorrono studi o indagini per accertare bizzarri nessi causali non meglio precisati nella loro ragion d’essere; siamo in sede di politiche ambientali e di Sanità pubblica, non in un’aula d’udienza penale: il principio che deve guidare non è “l’oltre il ragionevole dubbio”, è il principio di prevenzione (quello di precauzione qui, ormai, è abbondantemente superato: le nocività sono certe, non ipotetiche).

Se qualcuno che riveste ruoli istituzionali apicali chiede le valutazioni di danno, dica se poi, eventualmente, applicherà e farà applicare i rimedi e le sanzioni che devono scaturire da quelle valutazioni come impone la legge. Se no, è lite da retrobottega di partito. Avendo come pretesto, però, questioni tragicamente più serie di un retrobottega di partito.

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